
Supervenice
Autunno-inverno 2019
in copertina:
Armin Linke, M.O.S.E. – Consorzio Venezia Nuova, ship maneuvering simulator, Venezia, 2007
Tutti i contributi pubblicati in questo numero sono stati sottoposti a un procedimento di revisione tra pari (Double-Blind Peer Review) ai sensi del Regolamento Anvur per la classificazione delle riviste nelle aree non bibliometriche, ad eccezione dei testi presenti nelle rubriche Citazione, Inserto, Racconto, Ring e Tutorial.
ISSN 2704-7598
ISBN 978-88-229-0416-4
DOI 10.1400/283005
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Venezia è nota, la sua identità è così conosciuta da essere considerata scontata, sintetizzabile come un logo e ripetibile: la città mostra il proprio volto lasciando nello sfondo la propria struttura. Oro e fango qui si mescolano dando corpo a un documento multiforme. Concreto e immaginario, autentico e replicabile, minuto e smisurato, potente e fragile si scambiano la scena, si mescolano guardando Venezia come oggetto cangiante.
L’alter ego di quanto è noto e scontato è superlativo ovvero supera canoni predeterminati, è l’impensabile condensato nel prefisso di una lingua altra, poiché si palesa solo quando si esce da Venezia, quando sollevandosi la si guarda da fuori. Così emergono dalla sua immagine fissa azioni e progetti, modi e opere che trasportano la città in un’altra dimensione, che la trasfigurano. Questo vento (super) lento la traversa ma non la cambia: Venezia continua a offrire il suo volto noto allo specchio che la riflette quotidianamente. Piegare quel vento per andare dentro l’oggetto implica immergersi, almeno per il tempo di un racconto su carta, nelle deviazioni, nelle contraddizioni di Supervenice. Venezia è continuamente progettata, faticosamente “perseverata”, nata fortunosamente in un luogo inabitabile contraddicendo le norme dell’attuale idea di sostenibilità, già allora metteva in campo desideri e paure. La città è fronteggiata da quel che resta della più grande zona industriale d’Europa, a questa concreta traccia di modernità novecentesca si frappone un’ipertrofia bibliografica: una gigantesca biblioteca ideale è stata costruita misurando la città più umorale, lunatica dell’Occidente. Anche se Marco Polo la trovava noiosa, tanto da non volerci tornare, la sua stabilità, come in un ambiente orientale, dipende dallo scirocco e dalla luna. Questa sua indeterminazione primordiale la rende il miglior laboratorio, impensabile in altri contesti, per mettere a fuoco questioni cruciali per il futuro. Il contesto muta e con esso vacillano certezze che riaprono la via della ricerca, del progetto: Supervenice è scavare nel territorio più noto per estrarne genealogie anacroniche. Il super alter ego di Venezia è una grande bolla che sospende il dato temporale mentre lo spazio vacilla: quel che resta è solo progetto.
Autori
Sara Marini (Editoriale); Manfredo Tafuri (Citazione); Paul O Robinson (Progetti); Luigi Guzzardi (Progetti); Paolo Ceccon (Progetti); Robert Henke (Progetti); Mario Piana (Progetti); Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos (Racconti); Manuele Fior (Racconti); Nicola Emery (Saggi); Gabriele Monti (Saggi); Fernando Quesada (Saggi); Annalisa Sacchi (Saggi); Serenella Iovino (Saggi); Riccardo Miotto (Inserto); Giovanni Marras (Traduzione); Giuseppe Samonà (capogruppo), Costantino Dardi, Emilio Mattioni, Valeriano Pastor, Gianugo Polesello, Alberto Samonà, Luciano Semerani, Gigetta Tamaro, Egle Renata Trincanato (Traduzione); Luca Trevisani (Viaggio); Supervoid+Friel (Ring); Fabrizio Antonelli (Tutorial); Massimo Santanicchia (Dizionario); Angela Vettese (Dizionario); Léa-Catherine Szacka (Dizionario); Milovan Farronato (Dizionario); Lorenzo Calvelli (Dizionario); Alessandra Pagliano (Dizionario).
Indice
Abstract e contributi in accesso aperto
Sara Marini
Supervenice
Venezia è nota, la sua identità è così conosciuta da essere considerata scontata, sintetizzabile come un logo e ripetibile: la città mostra il proprio volto lasciando nello sfondo la propria struttura. Oro e fango qui si mescolano dando corpo a un documento multiforme. Concreto e immaginario, autentico e replicabile, minuto e smisurato, potente e fragile si scambiano la scena, si mescolano guardando Venezia come oggetto cangiante.
L’alter ego di quanto è noto e scontato è superlativo ovvero supera canoni predeterminati, è l’impensabile condensato nel prefisso di una lingua altra, poiché si palesa solo quando si esce da Venezia, quando sollevandosi la si guarda da fuori. Così emergono dalla sua immagine fissa azioni e progetti, modi e opere che trasportano la città in un’altra dimensione, che la trasfigurano. Questo vento (super) lento la traversa ma non la cambia: Venezia continua a offrire il suo volto noto allo specchio che la riflette quotidianamente. Piegare quel vento per andare dentro l’oggetto implica immergersi, almeno per il tempo di un racconto su carta, nelle deviazioni, nelle contraddizioni di Supervenice. Venezia è continuamente progettata, faticosamente “perseverata”, nata fortunosamente in un luogo inabitabile contraddicendo le norme dell’attuale idea di sostenibilità, già allora metteva in campo desideri e paure. La città è fronteggiata da quel che resta della più grande zona industriale d’Europa, a questa concreta traccia di modernità novecentesca si frappone un’ipertrofia bibliografica: una gigantesca biblioteca ideale è stata costruita misurando la città più umorale, lunatica dell’Occidente. Anche se Marco Polo la trovava noiosa, tanto da non volerci tornare, la sua stabilità, come in un ambiente orientale, dipende dallo scirocco e dalla luna. Questa sua indeterminazione primordiale la rende il miglior laboratorio, impensabile in altri contesti, per mettere a fuoco questioni cruciali per il futuro. Il contesto muta e con esso vacillano certezze che riaprono la via della ricerca, del progetto: Supervenice è scavare nel territorio più noto per estrarne genealogie anacroniche. Il super alter ego di Venezia è una grande bolla che sospende il dato temporale mentre lo spazio vacilla: quel che resta è solo progetto.
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Manfredo Tafuri
Nella tempesta
Breve estratto da La “nuova Costantinopoli”. La rappresentazione della “renovatio” nella Venezia dell’Umanesimo (1450-1509), in “Rassegna”, no. 9, anno IV, marzo 1982, pp. 36-37.
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Paul O. Robinson
Site castings. Intrecci con Palazzo Fortuny
Site Castings. Intrecci con Palazzo Fortuny esplora lo svelamento tecnico e narrativo delle superfici, rivelato attraverso opere multiformi generate dal contesto di Palazzo Fortuny a Venezia e ricollocate al suo interno. Nella prima parte, la superficie viene considerata nei termini della sua relazione speculativa – percettiva – con il contenuto nella definizione della forma; nella seconda viene affrontata l’idea di indizio, in particolare dell’immagine probatoria, e l’idea di Venezia come vittima reimmaginata dalla continua appropriazione della sua immagine, in conseguenza alla sua abbondanza visiva. La terza parte intreccia i primi due paragrafi per introdursi all’interno delle modalità di lavoro che definiscono Site Castings, concentrandosi sull’uso dei raggi-X come mezzo per generare molteplici processi trasformativi. Le opere che compongono Site Castings comprendono vari mezzi espressivi – raggi-X, dipinti a tecnica mista e sculture-talismano – che servono a trasformare il quadro dei manufatti esaminati, trovati in seguito all’occupazione, in un corpus di opere, bidimensionali e tridimensionali, ricollocate poi nel loro contesto originario, all’interno di Palazzo Fortuny, a generare una corrispondenza spaziale.
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Luigi Guzzardi
Casa-studio Scatturin di Carlo Scarpa: incontri e relazioni nella Venezia degli anni Cinquanta-Sessanta
Il contributo propone una lettura contestuale del progetto di Carlo Scarpa per lo studio e l’abitazione dell’avvocato Luigi Scatturin, realizzato tra il 1961 e il 1963. Per comprendere appieno il progetto, è interessante rileggere la figura del committente e della vita culturale nella Venezia degli anni Cinquanta e Sessanta. L’avvocato sarà nel collegio della difesa di Scarpa nel corso delle gravi vicende giudiziarie di cui il professore fu oggetto. Il rapporto avvocato-cliente interpretato dai due protagonisti, troverà una alta definizione formale nello spazio e negli arredi realizzati per la casa-studio di calle degli Avvocati.
La lettura del progetto svolta alla luce dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Treviso – Centro Carlo Scarpa, si avvale del racconto dell’avvocato Scatturin intervistato in un poco noto documentario Rai Carlo Scarpa. Un tenace amore del 1984, e dei ricordi di Lea Quaretti nel suo Diario recentemente pubblicato da Neri Pozza. Il lavoro del maestro non rinuncia a interpretare le richieste e la personalità del committente, ma al tempo stesso riesce a porsi quale sintesi della sua biografia esistenziale alla luce dei contemporanei eventi della vita della città.
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Paolo Ceccon
Oltre un eloquente silenzio.
Progetto per l’ex Casa-studio Scatturin di Carlo Scarpa
L’architettura di Scarpa è paradigmatica di una concezione dell’opera come rappresentazione di sé. Ogni possibile alterazione, comportando la possibile perdita di un’ineffabile malia, reclama innanzitutto capacità di giudizio, pretende attenzione e cura nell’esprimere preferenze. Oblio e conoscenza del presente, sono gli estremi di una dialettica interna al progetto che è chiamata a governare “intervalli critici”, “sezioni temporali di pensiero” che misurano la reale presa di distanza dal supporto architettonico e dalla responsabilità di pensiero verso “il lascito”. Un distacco utile, possibile attraverso un atto di indispensabile oblio, che consente comprensione e azione.
A partire da ciò, una logica del movimento, percettiva, bergsoniana, suggerisce il processo di mutazione dello spazio. Agendo sulle sequenze, sui piani di luce e ombra, sulle immagini-movimento sono state individuate tre azioni progettuali: la prima, fisica, puntuale, sul corpo della casa; una seconda, induttiva, diffusa, in grado di introdurre nuovi campi di attenzione; l’ultima, fondata sull’analogia, riporta i molteplici tempi dell’abitare veneziano all’interno della nuova narrazione.
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Robert Henke
Venice Dust
Nel febbraio 2019, Robert Henke, compositore audio-visivo berlinese, ha trascorso due settimane a Venezia per lavorare a un concerto multicanale e prepararne la prima a Palazzo Grassi. Il testo è un’introduzione all’approccio e alla metodologia dell’artista: da una parte mostra in che modo la geometria astratta di una città possa essere interpretata come ritmo e struttura, i suoi dettagli come texture, la luce e i colori come timbro; dall’altra come la presenza dell’artista in un contesto così strutturato possa influenzare il suo lavoro. Anche se oggi la “mappatura” diretta o “sonificazione” degli ambienti è pratica diffusa, mentre si lavora a una composizione stando a Venezia la città lascia tracce nell’opera, e in questo caso il processo è altamente intenzionale e razionalizzato. Il testo è una riflessione personale, eppure mostra modelli tipici della creazione artistica che possono essere adattati a molti campi dell’espressione creativa.
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Mario Piana
Un restauro di “lunga durata”: il Palazzo dei Grimani a Santa Maria Formosa
Il contributo si concentra sul lungo restauro del Palazzo dei Grimani a Santa Maria Formosa mettendo a fuoco le tecniche impiegate e i metodi adottati nelle quattro fasi in cui l’intervento si è articolato. Risolte le prime operazioni d’urgenza e affrontate le campagne d’analisi preliminare, a partire dal 1984 l’iter degli interventi è stato mirato a ristabilire la statica della grande fabbrica, sia operando sulla stabilità del complesso delle membrature verticali, orizzontali e delle fondazioni, sia rinnovando infissi e finiture; recuperare i cicli decorativi e reintegrare le finiture edilizie attraverso operazioni di consolidamento, pulizia e protezione; difendere il pianterreno dalle invasioni mareali e attrezzare il manufatto delle dotazioni impiantistiche necessarie a rimetterlo in uso.
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Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos
The Watern Constellations
A short story, between prose and poem, about slow water, inhospitable mountains, impossible tasks, inane repetition, vast temporalities, screaming superegos and aquatic releases. It is a story about Venice.
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Manuele Fior
Celestia
Celestia è in tutto e per tutto la Venezia di un mondo parallelo: cambiano i nomi, i tempi, ma rimangono le dinamiche che hanno portato quest’isola a essere un rifugio dalle invasioni barbariche, poi il centro del mondo culturale e commerciale, infine l’icona mondiale del turismo di massa.
Il racconto è un estratto della graphic novel Celestia di Manuele Fior, vol. I in uscita a novembre 2019, vol. II 2020, Oblomov, Quartu Sant’Elena.
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Nicola Emery
Walter Benjamin e l’aura di Venezia
Venezia non figura fra i luoghi ritratti da Benjamin nel suo libro postumo Immagini di città.
Tuttavia il saggio mostra come il giovane Benjamin visitò Venezia e la sua laguna e ne scrisse, mentre anche in uno scritto successivo egli fece riferimento alle riproduzioni fotografiche della Serenissima. Il saggio mette in evidenza come i giorni veneziani del giovane Benjamin coincisero con quelli delle feste organizzate in città per la ricostruzione del Campanile di San Marco. Benjamin anche a motivo dei resti delle macerie del crollo ancora fresche, oltre che sotto la suggestione di una sua gita nella misera Chioggia, fece un’associazione illuminante fra la realtà di questa Venezia tendente ad un “sempre eguale” immunitario e miticamente destinale e la realtà immaginaria di Perle, la città al centro del capolavoro di Alfred Kubin, L’Altra parte. Venezia ricorda Perle e a sua volta Perle consente di pensare Venezia, secondo un circolo ermeneutico ricco di implicazioni.
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Gabriele Monti
Le Bal. La superficie violenta delle feste veneziane
Il saggio utilizza il ballo organizzato da Don Carlos de Beistegui a Palazzo Labia il 3 settembre 1951, celebrato come il bal du siècle, per sviluppare una riflessione sul rapporto fra l’immagine di Venezia come luogo di artificio scenico e il carattere illusionistico della moda, utilizzando in particolare le interpretazioni che la moda ha fornito di Venezia nel corso del Novecento, intrecciate al concetto di glamour, così come è stato ricostruito e analizzato da Stephen Gundle (2008).
Il caso del ballo Beistegui, letto attraverso le cronache e le immagini dell’epoca, permette di ipotizzare un dialogo fra moda e balli nel loro accadere a Venezia, che enfatizza una rapidità quasi violenta e una profonda superficialità, dimensioni che attraversano questi due universi, suggerendo la loro capacità di interpretare la contemporaneità proprio perché simultaneamente fuori dal tempo.
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Fernando Quesada
Il super labirinto della comunità in esilio
Il ghetto nuovo di Venezia è una struttura architettonica di eccezionale chiarezza formale all’interno di un sistema complessivo di tre ghetti: vecchio, nuovo e novissimo. L’impianto planimetrico del ghetto nuovo è rimasto inalterato dalla sua fondazione a oggi, così si è prestato e si presta ancora a evocare l’alterità di una comunità sociale più o meno armoniosa. Ogni notte, per trecento anni, il ghetto è stato chiuso e sorvegliato dalla milizia marina nel canale che lo delimita. Presenta molte similitudini con altre zone residenziali della città costruite intorno a un campo: è un complesso molto compatto di abitazioni, sviluppato in verticale su un vuoto centrale. Tuttavia, ha sempre rappresentato un’anomalia nel tessuto urbano di Venezia a causa dell’altezza della cortina di edifici che lo definisce e della suddivisione interna degli spazi. Ciò ha reso il ghetto nuovo oggetto di desiderio per viaggiatori, cronisti e persino per i veneziani.
Il saggio supera l’apparente condizione caotica, spontanea, esotica e pittoresca del ghetto nuovo per leggerlo come una struttura architettonica altamente normata, densa di contraddizioni e rappresentativa del nomadismo che ha storicamente caratterizzato la cultura ebraica. Il ghetto nuovo si esprime in forma di super labirinto e si mostra al contempo anti-città e anti-architettura dell’esilio, rigido contenitore architettonico che permette di ordire complessi parametri alternativi di inclusione ed esclusione, cittadinanza ed esilio, significato sociale e forma architettonica.
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Annalisa Sacchi
Il sipario si alzerà su un incendio.
Venezia: dal rogo de La Fenice al romanzo della cenere
Fino all’introduzione della corrente elettrica, la vita media di un teatro si stima si aggirasse intorno ai trent’anni. I teatri venivano regolarmente rasi al suolo dagli incendi e, spesso, ricostruiti nel luogo dove già sorgevano. È la storia di tutti i teatri veneziani, la stessa che si ripete per due volte nel caso del più importante teatro cittadino: La Fenice.
Il testo analizza la relazione dei teatri con l’accidente dell’incendio e, insieme, mette in luce l’intimità essenziale che corre tra l’evento fattuale del rogo e lo statuto ontologico del teatro – arte della non-permanenza –, il suo avere cioè come orizzonte e limite la perdita radicale.
È a Venezia che nel 2005, meno di dieci anni dopo l’ultimo incendio de La Fenice, Romeo Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio firma una Biennale Teatro tutta all’insegna del rogo e intitolata “Pompei. Il romanzo della cenere”. Castellucci, nel corso della sua carriera, ha più volte invocato l’incendio come punto-cieco della performance, e in questa Biennale, aperta da Flame Tornado, una colonna di fuoco alta più di 15 metri dell’artista Kevin Binkert, esplora i limiti e le possibilità di rinascita del teatro passato per il rogo mentale del suo pensiero.
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Serenella Iovino
Leggere i corpi di Venezia.
Viaggi attraverso le narrative materiali della laguna
Sorti negli anni Novanta, gli studi letterari ecologici sono un fiorente campo di ricerca nutrito da molteplici dibattiti teorici. Tra i filoni più recenti vi è l’ecocritica della materia, un approccio teorico influenzato, tra gli altri, dai new materialisms, la cui premessa è che la materialità del mondo ha una dimensione intrinsecamente semiotica. Il mondo può, in altre parole, essere letto come un testo, un piano narrativo che emerge dall’agentività intrecciata di natura e cultura, elementi fisici e pratiche discorsive. Tutte le nostre interazioni con questo testo sono interpretazioni. Tuttavia, lungi dall’essere relegate nel campo delle astrazioni, come vorrebbe il decostruttivismo postmoderno, queste interpretazioni hanno conseguenze concrete e materiali: le crisi che affliggono i nostri ecosistemi, paesaggi ed equilibri socio-ambientali ne sono l’esempio più eloquente.
Questo saggio, che riassume un capitolo del libro Ecocriticism and Italy: Ecology, Resistance, and Liberation (Bloomsbury, London - New York 2016), considera Venezia come un testo fatto di storie corporee: un testo materiale in cui dinamiche naturali, pratiche culturali, visioni politiche e scelte industriali si intrecciano con altri corpi, umani e non umani, in questioni di giustizia, salute, ecologia. L’idea di fondo è che la perdita progressiva di una “interpretazione adeguata” del testo della laguna ha determinato la trasformazione di Venezia in un mero scenario. Le conseguenze di ciò sono visibili non solo negli alti tassi d’inquinamento industriale, ma anche nei livelli crescenti delle maree (e nel modo improprio di controllarli), nel turismo insostenibile delle grandi navi da crociera, e nell’insostenibilità di molte delle normali attività che interferiscono con la vita di questo delicato ecosistema.
Prendendo come oggetto opere letterarie, pièces teatrali e casi “viventi”, l’autrice cerca di dimostrare come leggere questi testi corporei e culturali in combinazione gli uni con gli altri sia un modo per amplificare le voci, spesso trascurate, della realtà di Venezia.
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Riccardo Miotto
Tornelli
La serie intitolata Tornelli propone tre progetti site-specific – volutamente paradossali – inerenti alla regolazione degli accessi a piazza San Marco. Il materiale di ricerca è tratto dall’informazione giornalistica circolata attorno alla possibile entrata in scena di alcuni tornelli nei principali accessi alla città di Venezia. Ogni progetto è presentato attraverso due immagini, viste e schemi ex tempore immersi in una luce nera, che tratteggiano le strutture ed il loro funzionamento. Ognuna di esse imposta quindi una specifica postura o comportamento che il visitatore dovrà assumere. Pensata come un discorso per immagini, la serie riflette sul carattere teatrale del dispositivo tornello, il cui effetto dissuasore pare più efficace a livello comunicativo anziché pratico. Tracce di progetti destinati a non realizzarsi ridisegnano senza posa i profili della città, la cui immagine è apparentemente consegnata a ritratti atemporali.
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Giovanni Marras
Radicalismo inverso: il vuoto come valore, gli studi urbani come strumento
Il bando del concorso per la Nuova Sacca del Tronchetto viene pubblicato il 27 febbraio 1964. Il concorso si chiude di fatto con cinque gruppi premiati ex-aequo al primo posto e un secondo premio speciale assegnato al progetto contraddistinto dal motto NOVISSIME del gruppo Samonà.
NOVISSIME, dal punto di vista strettamente culturale radicalmente propone di ricondurre la città al suo aspetto settecentesco. Se per un verso può apparire romantico ridonare alla città la sua veste antica, il testo che accompagna il progetto non lascia dubbi sul radicalismo spinto della proposta. Gli studi urbani che guidano il bisturi e il bulldozer di NOVISSIME traggono alimento scientifico da una serie di ricerche che trovano nello Iuav di Giuseppe Samonà un centro importante. La relazione illustrativa di NOVISSIME, testo di riferimento per una apocrifa teoria dei vuoti urbani, rappresenta il fondamento di una sorta di radicalismo inverso che, profeticamente, assegna al vuoto, piuttosto che alla ridondanza semantica del segno architettonico, valore discriminante dei caratteri del costruito.
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Giuseppe Samonà (capogruppo), Costantino Dardi, Emilio Mattioni, Valeriano Pastor, Gianugo Polesello, Alberto Samonà, Luciano Semerani, Gigetta Tamaro, Egle Renata Trincanato
Relazione illustrativa motto: NOVISSIME
Traduzione a cura di Giovanni Marras della Relazione illustrativa del Progetto Novissime: Concorso Internazionale per la redazione del piano urbanistico planivolumetrico per la Nuova Sacca del Tronchetto, conservata nell’Archivio Progetti dell’Università Iuav di Venezia, fondo Egle Renata Trincanato.
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Luca Trevisani
Costum car commando. Ovvero non tutti i viaggi sono vacanze
Poco dopo la mezzanotte dell’8 maggio 1997 un gruppo di otto uomini in divisa mimetica conquista il cuore di Venezia assaltando il Campanile di piazza San Marco alla guida di un bizzarro mezzo militare.
Custom Car Commando è il racconto critico di quel traumatico viaggio insurrezionale, scritto delineando i legami espliciti e quelli latenti che intercorrono tra quell’emblematico tumulto lagunare e la grammatica della ribellione scritta dalle arti visive nel Novecento, l’iconografia dell’autocostruzione, la pirateria situazionista e l’immaginario camp così come codificato da Kenneth Anger.
Viaggiare è assecondare il richiamo di un centro gravitazionale. Il memorabile gesto iniziatico degli indipendentisti veneti è stato un pellegrinaggio politico, un rituale esplosivo, un progetto di scrittura pubblica che disobbediva alle retoriche normative, un disturbo dei miti condivisi sviluppato appropriandosi delle etichette e i codici dell’happening e dell’arte pubblica: delinearne la genealogia significa indagare la trasfigurazione del linguaggio dell’arte nel quotidiano, e definire la barriera tra l’aggressività simbolica e quella reale.
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Supervoid+Friel
I Giardini della Biennale. Dialettica e scontro tra aspirazioni nazionali ed internazionali
Inserito all’interno della rubrica Ring, il contributo delinea due fronti nel progetto dei padiglioni dei Giardini della Biennale che si divide tra linguaggi nazionalisti ed internazionalisti.
Il ridisegno dei prospetti nella loro evoluzione cronologica all’interno dell’area restituisce graficamente questo scontro, mentre un breve testo apre ad una possibile riflessione sul loro significato attuale.
All’interno dei Giardini, le architetture dei padiglioni nazionali hanno instaurato una dialettica tale da permettere una chiara lettura del loro sviluppo, offrendo un’immagine precisa degli obiettivi politici da cui erano attraversate le nazioni che in quel momento storico ne ordinavano la costruzione.
Se nel corso dei primi decenni di vita della Biennale viene messo in scena il rapporto tra le grandi potenze e i linguaggi nazionali dominano le facciate dei padiglioni, a partire dagli anni Cinquanta l’aspirazione all’appartenenza ad un territorio di condivisione culturale sovranazionale porterà con sé un nuovo linguaggio architettonico.
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Fabrizio Antonelli
Le pietre (di Venezia) raccontano: come leggerle
Sono richiamati brevemente i principali momenti storici che hanno determinato l’importazione e l’uso architettonico di pietre e marmi antichi di origine esotica e italica nella città di Venezia. Il contributo evidenzia l’importanza degli studi petrografici e archeometrici in un contesto come quello veneziano in cui i materiali lapidei conformano il paesaggio architettonico. Articolati talora in forma di tutorial, testo e immagini elencano e illustrano le operazioni necessarie per leggere nelle pietre di Venezia tecniche, visioni e strategie per agire sulla città. Risulta del tutto evidente che l’identificazione, la valutazione dell’esatta consistenza qualitativa e quantitativa e la conoscenza della storia d’uso dei materiali lapidei impiegati assumono qui particolare importanza e significato. Ciò è testimoniato, ad esempio, dalla pavimentazione della Basilica di San Marco, un autentico “mappamondo lapideo” ottenuto reimpiegando marmi provenienti dalle più importanti cave di tutto il Mediterraneo antico.
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Massimo Santanicchia
Amphibious
Il termine “anfibio” va interpretato come una forza che connette i terrestri con il loro ambiente naturale e artificiale. Se gli architetti volessero trovare effettive soluzioni ai più urgenti problemi del XXI secolo dovrebbero imparare ad essere anfibi e a riprogettare il modo in cui ci insediamo nel mondo. Venezia è un’importante lezione per il futuro dell’umanità poiché il suo valore risiede nella capacità di essere anfibia sia in termini naturali, in quanto città terracquea, sia in termini sociali tenendo insieme diverse popolazioni e culture.
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Angela Vettese
Biennial
La Biennale di Venezia, fondata nel 1895, è stata la prima mostra di questo genere. La sua formula è basata su di una mostra centrale e molti eventi satellite, sparsi nell’intera laguna, tra cui i Padiglioni Nazionali sono la parte più discussa ma anche quella con maggiore successo: in quanto “mostra multicellulare”, evita il punto di vista unico di un curatore singolo. Essa è andata allargando la sua influenza nella città di Venezia ed è stata lo stimolo efficace per la nascita di molte fondazioni private dedicate alle arti contemporanee. Benché spesso criticata, specialmente per il suo rifiuto di negare l’idea di Nazione, ha dimostrato di essere un buon veicolo per lo sviluppo culturale ed economico della città. In particolare, la sua capacità di portarvi attitudini artistiche sperimentali, si incontra con la vocazione della città medesima: nonostante Venezia abbia una reputazione di legame ossessivo con il passato, in effetti è potuta sopravvivere e ancora sopravvive in quanto centro culturale nel mondo grazie alla sua capacità di mescolare l’antico al nuovo, in un vivace sovrapporsi di stili e idee. Il contributo mostra sia l’inclinazione della Biennale di ripensare le pratiche curatoriali, sia il suo modo di reinterpretare un incessante sguardo verso il futuro che, in modo controintuitivo, caratterizza la città fino a ora.
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Léa-Catherine Szacka
Crowd
Il 15 luglio 1989 Venezia è stata presa d’assalto da una folla imponente che ha raggiunto la città per partecipare al concerto, gratuito e all’aperto, della rock band inglese Pink Floyd. Unita dalla musica, la folla ha occupato la città ed è divenuta simbolo di una “opposizione continua tra passato e presente”, di uno scontro tra due idee di città. Guardando al significato del termine “folla” in rapporto alle sue interazioni fisiche con i centri storici della città, il testo richiama la famigerata notte del concerto veneziano e solleva questioni legate alla crescita del turismo di massa e alla sempre maggiore spettacolarizzazione delle città.
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Milovan Farronato
Ultra
Simeone lo Stilita e il suo esilio in verticale a quattordici metri d’altezza durato trentasette anni. Un anno in meno della tortuosa edificazione della dimora senza fine, e senza apparente senso, di Sarah Winchester nel nord della California. La penitenza così fuori scala dell’anacoreta e l’ipertrofia architettonica dell’ereditiera per esorcizzare un’irrinunciabile paura. La morte per accumulo senza sosta dei fratelli Collyer e gli Hikikomori. L’Isola delle Rose e l’epicureo láthe biósas. Il mito di Sisifo e l’immagine di Priapo, il mostruosamente smisurato. I portatori di ferro nella Siria del V secolo e le mappe di Mark Lombardi (in compagnia delle onnivore letture che le hanno rese possibili): costellazioni e nebulose di punti, pattern formulati da linee intricate, archi e circonferenze che hanno illustrato precocemente la natura e l’essere in atto dei legami tra finanza globale e terrorismo internazionale. I giochi di guerra in totale solipsismo di Kim Jones, vittima e carnefice a sequenza alternata. L’autismo presunto di Andy Warhol, la sua parrucca e le sue Time Capsules.
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Lorenzo Calvelli
Venetiae
Il contributo indaga gli usi del toponimo Venetiae, che è attestato dalle fonti scritte sin dalla prima età romano-imperiale per indicare diversi comprensori territoriali dai confini mutevoli e indeterminati, dislocati fra acqua e terra nel contesto geografico dell’Italia nord-orientale. La pluralità semantica del toponimo prosegue fino ai giorni attuali, in cui molteplici Venezie si sovrappongono nell’epoca dell’iperturismo e della realtà virtuale.
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Alessandra Pagliano
Zootropio
The Zoetrope is an instrument designed by the British mathematician William George Horner, in 1834, to provide the optical effect of images (drawings) in motion. It was born in the experimental climate before the birth of the cinema, which had already led to the invention of the Thaumatrope (1825), the Anorthoscope (1828) and the Phenachistoscope (1832). The device consists of a hollow cylinder with loopholes; along the intrados was placed a series of drawings in sequence. The cylinder rotated around its vertical axis and the observers, looking at the drawings through the rapid succession of loopholes, perceived the illusion that those static images made real movements. The instrument is based on the optical phenomena known as persistence of vision, described in 1829 by Joseph Plateau, who affirmed that human eye holds a perceived image for a few fractions of a second, even after its disappearance.
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