
Nella selva
Autunno–inverno 2020
in copertina:
Guido Guidi, Sardegna_Orani 07-2011
Tutti i contributi pubblicati in questo numero sono stati sottoposti a un procedimento di revisione tra pari (Double-Blind Peer Review) ai sensi del Regolamento Anvur per la classificazione delle riviste nelle aree non bibliometriche, ad eccezione dei testi presenti nelle rubriche Citazione, Inserto e Racconto.
ISSN 2704-7598
ISBN 978-88-229-0533-8
DOI 10.1400/283007
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La selva torna sia come immagine, capace di riassumere i caratteri dei luoghi e le modalità di attraversamento degli stessi, sia come realtà: l’avanzata dei boschi in alcuni territori e la presenza di aree selvagge e selvatiche in città sono fatti concreti e in continua espansione.
I due piani di lettura della selva, quello che la assume come figurazione per interpretare il reale e quello che la analizza come spazio evidente, chiedono la codifica di strumenti e modi per abitare questo luogo ignoto.
Il ritorno della selva segna il ritorno di un nuovo senso dell’“arcaico”, di una ennesima commistione tra l’architettura e la terra, un connubio consapevole del conflitto tra ragione e perturbante, tra avventura e comfort, tra memorie di città e modalità di vita proprie del bosco. Il termine “selva” connota precise e concrete realtà e molteplici immaginari ma indica anche la possibile traiettoria del tempo futuro quanto il rivolgimento verso un passato lontanissimo: è una freccia la cui direzione stabilisce i connotati di un nuovo possibile contrat naturel.
Autori
Sara Marini (Editoriale); François Rabelais (Citazione); Guido Scarabottolo (Inserto); Alessandro Rocca, Jacopo Leveratto (Tutorial); Giovanni Corbellini (Progetti); Paradigma Ariadné (Progetti); Lara García Díaz (Progetti); Dario Gentili, Federica Giardini (Saggi); Emanuele Coccia (Saggi); Nieves Mestre (Saggi); Agostino De Rosa (Saggi); Barbara Boifava (Traduzione); Lawrence Halprin (Traduzione); Luigi Latini (Viaggi); Lorenza Gasparella (Viaggi); Andrea Pertoldeo (Viaggi); Liz Flyntz (Archivi); Francesca Santamaria (Archivi); Fabio Bozzato (Racconto); Harold Fallon, Amanda F. Grzyb, Thomas Montulet (Dizionario); Josep-Maria Garcia-Fuentes (Dizionario); Ishita Jain (Dizionario); Nicola Di Croce (Dizionario); Annalisa Metta (Dizionario); Alessandro Gabbianelli (Dizionario).
Indice
Abstract e contributi in accesso aperto
Sara Marini
Nella selva
La selva torna sia come immagine, capace di riassumere i caratteri dei luoghi e le modalità di attraversamento degli stessi, sia come realtà: l’avanzata dei boschi in alcuni territori e la presenza di aree selvagge e selvatiche in città sono fatti concreti e in continua espansione.
I due piani di lettura della selva, quello che la assume come figurazione per interpretare il reale e quello che la analizza come spazio evidente, chiedono la codifica di strumenti e modi per abitare questo luogo ignoto.
Il ritorno della selva segna il ritorno di un nuovo senso dell’“arcaico”, di una ennesima commistione tra l’architettura e la terra, un connubio consapevole del conflitto tra ragione e perturbante, tra avventura e comfort, tra memorie di città e modalità di vita proprie del bosco. Il termine “selva” connota precise e concrete realtà e molteplici immaginari ma indica anche la possibile traiettoria del tempo futuro quanto il rivolgimento verso un passato lontanissimo: è una freccia la cui direzione stabilisce i connotati di un nuovo possibile contrat naturel.
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François Rabelais
Sylva
Breve estratto da François Rabelais, Gargantua e Pantagruel, William Benton, Chicago-London-Toronto 1952, p. 20.
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Guido Scarabottolo
Grovigli
Il contributo visivo presenta una sequenza di dieci illustrazioni realizzate dall’artista in momenti diversi e per diversi scopi attraverso procedure di sovrapposizione. La serie include una raccolta di disegni raggruppati e stampati uno sull’altro per l’inserto di un quotidiano, un “semilavorato” per un romanzo di Luis Sepúlveda, un ritratto di Louis-Ferdinand Céline, la copertina di un catalogo e altri esperimenti, alcuni dei quali per ora senza destinazione.
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Alessandro Rocca, Jacopo Leveratto
Thoreau e Kaczynski, la capanna mediatica. Costruire un manifesto
L’articolo analizza due capanne esemplari, quella che Henry David Thoreau costruisce sulla riva del lago Walden nel 1842 e quella in cui Unabomber si ritira, dal 1971, nei boschi del Montana, per mettere in luce come questo tipo di costruzione rappresenti non solo il mezzo più immediato per vivere secondo un ordine esclusivamente individuale, ma anche la formalizzazione più essenziale di un manifesto personale, una dichiarazione sul senso dell’abitare. Se, come ha scritto Timothy Morton, “Anthropocene ends the concept nature: a stable, nonhuman background to (human) history” (Timothy Morton, How I Learned to Stop Worrying and Love the Term Anthropocene, in “Cambridge Journal of Postcolonial Literary Inquiry”, vol. 1, no. 2, 2014, p. 1), ogni esilio e fuga dalla società diventano un’esplorazione, talvolta involontaria, della natura, che diventa un dispositivo ideologico. E il mezzo con cui storicamente questa esplorazione si realizza è la capanna, un progetto anonimo e utilitario tanto più efficace quanto più riesce a essere una non-architettura, un quasi nulla in cui l’impatto simbolico è inversamente proporzionale all’originalità architettonica.
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Giovanni Corbellini
Double Why. 2Y House by Sebastián Irarrázaval
La 2Y House sul lago di Colico in Cile sviluppa una pianta ramificata che si adagia sul terreno e si insinua tra gli alberi. Sebastián Irarrázaval spiega questo suo progetto peculiare e idiosincratico come risposta adattiva al luogo e alle sue condizioni. Dalla superficie razionale e rassicurante del suo racconto trapelano tuttavia indizi di una ambiguità più stratificata, di una doppiezza leggibile a molti livelli e già contenuta nel titolo del progetto, così come nella soluzione insediativa che esso coglie con estrema sintesi. La villa interroga così lo spazio intermedio tra numerose antinomie: dentro-fuori, artificio-natura, selvatico-domestico, biomorfo-antropomorfo, alfabetico-ideografico...
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Paradigma Ariadné
Interni selvatici
L’articolo approfondisce l’evoluzione delle decorazioni parietali, costruendo un background teorico dall’arte rupestre agli interni selvatici dell’era digitale attraverso il progetto della carta da parati Pinterest Wallpaper. Se si paragona la fase iniziale di internet a un indistinto ensemble di contenuti, è possibile tracciare un parallelismo tra il “selvatico” e il world wide web 1.0. Confermando tale posizione, gli autori interpretano Pinterest come una forma di catalogazione di un internet primordiale, proprio come il darwinismo ha trasformato la sylva da qualcosa di misterioso in qualcosa di conosciuto. Sebbene adotti il medesimo layout dello spazio virtuale, Pinterest Wallpaper ripropone l’uso e il formato delle antiche carte da parati a motivi vegetali e, mediando l’immaterialità del digitale e la sostanza dell’analogico, colleziona e “cattura” l’ignoto selvatico sulle nostre pareti.
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Lara García Díaz
Nella foresta dell’emarginazione: Recetas Urbanas e il Centro Sociocomunitario Cañada Real Galiana
Qual è il significato della cura all’interno delle “strutture di socializzazione”? Il ricorso all’architettura sociale o alle “strutture di socializzazione” per favorire la mediazione sociale in contesti di abbandono istituzionale in cui regnano le regole dell’informalità è aumentato in modo esponenziale. Pensare alle “strutture di socializzazione” in questi termini significa sostenere il ruolo relazionale dell’architettura, in cui l’autocostruzione è utilizzata per rafforzare la cooperazione. Tuttavia, questo porta con sé implicazioni etiche. Il testo si focalizza sullo studio di progettazione Recetas Urbanas e, in particolare, sulla costruzione del Centro Sociocomunitario Cañada Real Galiana (Madrid, Spagna). L’obiettivo è duplice: utilizzare il modello della cura in quattro fasi di Joan Tronto per analizzare la dimensione relazionale delle “strutture di socializzazione” e rivendicare come gli strumenti alla portata delle attuali amministrazioni pubbliche spagnole provochino un declino dell’attenzione verso gli spazi informali.
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Dario Gentili, Federica Giardini
Selva e stato di natura: variazioni cinestesiche per il contemporaneo
In filosofia e non solo, l’immagine della “selva” – sia come simbolo sia come categoria ermeneutica e di pensiero – appartiene al mondo latino antico e ancora svolge un ruolo fondamentale nella prima modernità, in quell’arco di tempo che va dalla “selva oscura” di Dante alla “ingens sylva” di Giambattista Vico. La concezione vichiana della selva è di qualche decennio successiva alla tematizzazione di Thomas Hobbes, di quello “stato di natura”, che viene opposto all’ordine politico, in quanto condizione ferina, di minaccia alla sopravvivenza che, a riferimento antropologico, assume le società considerate all’epoca “primitive” o “selvagge”. La partizione dualistica opporrebbe dunque civiltà a barbarie, politica a condizione ingovernata, sicurezza a minaccia. Questo contributo intende riaprire quella che appare una selezione ideologica del retaggio culturale europeo ai fini delle contemporanee politiche di governo della attuale crisi antropologica.
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Emanuele Coccia
La natura comune. Oltre la città e la foresta
Lontano dall’essere l’espressione di una vita superiore, ogni città è una patologia psichica collettiva, vissuta in modo individuale e condiviso che modifica coscientemente il proprio ambiente per potersi rafforzare. Una città, inoltre, è uno strumento di proiezione di uno spazio altro, diverso, in cui tutte le altre specie respinte e forcluse nello spazio esterno vengono considerate come “foresta”, dal latino foris, “all’esterno”, “al di fuori di”. D’altra parte, il termine “foresta” dovrebbe essere tradotto, letteralmente, con “campo profughi”: la psicopatologia urbana ci permette di confondere una forma di esilio forzato con una forma di felicità primitiva e soprattutto permette di non cogliere il fatto che ogni città presuppone un genocidio preliminare di tutte le specie che abitavano lo spazio ora occupato dagli esseri umani. Questa patologia non rappresenta un destino. E come in tutte le forme di malattie dello spirito, i sintomi sono assieme espressione del disagio e prefigurazioni di una possibile via d’uscita. È quindi lavorando sui sintomi che si potrà trovare un’alternativa all’opposizione tra la città e la foresta, tra la civiltà e il selvaggio.
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Nieves Mestre
Over-Designed Ecologies
In vista della dimostrazione concreta e del riconoscimento sociale della crisi climatica, il design ecologico è passato radicalmente dalle pratiche dissidenti alle politiche ufficiali, recuperando temi come la rinaturalizzazione o le Nature-Based Solutions per le città. Queste soluzioni sono apparentemente “ispirate o sostenute” da una sorta di natura addomesticata, considerata esterna ai fenomeni urbani e mobilitata come un patch curativo alla loro crisi climatica.
Di fronte a questo approccio, le agende alternative rivendicano sia la devoluzione di una natura selvaggia nelle città sotto forma di ambienti poco progettati, sia una sorta di “ecologia oscura”, lontana dall’estetica del verde. La riconfigurazione contemporanea del concetto di “natura” nel discorso progettuale costituisce un passaggio significativo dalle metafore visive alla progettazione metabolica. La crisi ambientale esige la creazione di analogie integrate anziché di imitazioni della natura, intrecciando gli strati organici e tecnologici della progettazione.
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Agostino De Rosa
Nel bosco, una notte, all’origine delle immagini
Una illustrazione, tratta da un manuale di ottica del secolo scorso propone un’ipotesi suggestiva, secondo la quale la prima camera oscura nella storia del pianeta Terra si sarebbe configurata spontaneamente, durante il Carbonifero, quando l’essere umano doveva ancora fare la sua comparsa. Si tratta di una ipotesi perturbante anche perché il bosco, in questa visione fondativa dell’iconografia planetaria, diventerebbe il luogo in cui occorre l’epifania della visione, senza che questa sia ancora nata. Echi di un simile approccio si ritrovano nel lavoro di alcuni artisti contemporanei: Agnes Denes, Dominique Gonzalez-Foerster e Massimo Sordi. Nelle loro opere, la selva diventa il riflesso di una immagine non convenzionale della conoscenza in cui scompaiono i confini spaziali e temporali, divenendo cassa di risonanza di profonde istanze spirituali.
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Barbara Boifava
Il selvatico come arte
Negli studi sull’idea di natura che permea la cultura americana dei primi anni Settanta del secolo scorso, Halprin viene spesso definito come pioniere per la sua capacità di rendere palpabili i processi della natura e di accogliere l’estetica della wilderness nel progetto di paesaggio. Il suo intervento all’ottava conferenza biennale dedicata alla wilderness, tenuta a San Francisco (California) nel marzo 1963, introduce una nuova concezione ambientale e una inedita percezione creativa della natura tradotte nella progettazione dello spazio urbano, ma soprattutto esplicita la profonda convinzione che la conservazione della natura incontaminata possa essere garantita solo da un’accorta pianificazione delle città. La questione urbana si arricchisce di una nuova poetica della natura che promuove una crescita armoniosa della dimensione metropolitana, fondata su un riconosciuto paradigma ecologico e su un’estetica funzionale che permettono di conferire un rinnovato e più efficace significato allo spazio aperto nella forma propria di spazio pubblico.
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Lawrence Halprin
Wilderness e città
Traduzione a cura di Barbara Boifava dell’intervento di Lawrence Halprin, Wilderness and the City, alla 8th Biennial Wilderness Conference Tomorrow’s Wilderness organizzata dal Sierra Club a San Francisco nel 1963.
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Luigi Latini
Domestico e selvatico. Un viaggio nelle foreste di Malus sieversii del Tien Shan, Kazakistan
La città di Almaty, capitale della Repubblica Socialista Sovietica Kazaka con il nome di Alma Ata fino al 1991, anno dell’indipendenza del paese, possiede un’intensa relazione con la pianta del melo. Le foreste del melo selvatico, oggi visibili nell’Alatau Transiliano in una fascia altimetrica compresa tra i 900 e i 1800 metri sopra il livello del mare, hanno goduto in passato di una relazione di prossimità con la città, percepibile addirittura nello stesso paesaggio urbano, a seguito di una pianificazione che nel XIX secolo aveva previsto una sistematica presenza di piante arboree, compreso il melo selvatico. Un viaggio in direzione di questa città, nel centro dell’Asia, punto di partenza per l’esplorazione di una delle aree più significative per la presenza del Malus siversii, assume il carattere, anche alla luce di più recenti spedizioni scientifiche, di un viaggio controcorrente, in bilico tra culture e contesti geografici diversi e in forte evoluzione.
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Lorenza Gasparella
Mondi paralleli nella selva. Tracce, orme, voli da seguire
Gli animali viaggiano, ciascuna specie su distanze e traiettorie diverse. Possono incontrarsi o proseguire lungo rotte parallele. Alcuni più di altri popolano un immaginario che genera atteggiamenti antitetici di estrema attrazione o irrazionale paura, similmente al loro habitat, il bosco, il cui progressivo avanzare fino alla soglia di casa, se da un lato può essere un rinnovamento nella qualità dell’abitare, dall’altro può riaccende il timore della selva e dei suoi abitanti. Seguirli, osservarli, è il primo passo per sperimentare forme di comprensione e tentativi di coabitazione. Spesso questo si traduce in un inseguimento perché la certezza di aver decodificato segnali e comportamenti è costantemente messa in discussione. Ogni mondo, pur rimanendo relativamente incomprensibile per gli altri, continua a coesistere nello stesso luogo e nello stesso tempo, generando conflitti e contraddizioni, ma anche possibilità di riconciliazione.
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Andrea Pertoldeo
Viaggio in un roseto
Il contributo visivo indaga le potenzialità della serie fotografica come strumento per tradurre il disegno delle forme naturali. Inquadrando la microgeografia di un roseto sospeso nell’attesa, il fotografo procede per frammenti spazio-temporali, al fine di restituire minimi movimenti dei corpi e variazioni di luce.
Il breve testo di accompagnamento di Antonello Frongia invita a una riflessione critica: la fotografia registra o ri-costruisce l’ordine spaziale della natura?
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Liz Flyntz
Visioni di Ant Farm per il 2020. Una natura selvaggia del domani
La mostra 20/20 Vision di Ant Farm del 1973 inquadra le previsioni per il 2020 come sintesi di quattro date chiave – due del passato (1939 e 1955) e due del futuro (1984 e 2020) – che esemplificano nella loro congiunta immaginazione il nesso di un secolo di storia americana tra cultura, ambizione, politica, industria, creatività, innovazione tecnologica e (in ultima analisi) dominio e distruzione. La mostra è presentata nello stato del Texas, cuore dell’industria petrolifera statunitense, durante la crisi internazionale dei carburanti causata dagli interventi degli Stati Uniti in paesi stranieri. Sono esposti “ready-made” di veicoli e pompe di carburante, collage di memorabilia raccolti da precedenti progetti di Ant Farm e due nuove opere: Kohoutek: Dollhouse of the Future, un modello su scala casa di Barbie di una tecno-distopia in cui insetti giganti allevano per il loro nutrimento una colonia interamente femminile di esseri umani, e Convention City, una proposta architettonica per le convention presidenziali del 1976 in cui la politica si fonde con un set di giochi televisivi.
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Francesca Santamaria
Abitare il Real Bosco di Capodimonte
Il Real Bosco di Capodimonte, aperto al pubblico dal 1952, è un perfetto esempio di bene architettonico e ambientale ma è anche il polmone verde di Napoli, una delle città più popolose d’Italia. Nato nel Settecento come riserva reale di caccia, oggi ha un’identità ambigua, in bilico tra selva di periferia, giardino storico e verde pubblico. La sua storia dal dopoguerra ad oggi racconta del conflitto tra le esigenze materiali dei suoi fruitori e quelle di tutela del patrimonio, della tensione continua tra uomo e natura all’interno di un bosco urbano, dei cambiamenti nella gestione dei beni ambientali, e riflette al contempo le vicende della città. Per ripercorrere la storia del Real Bosco, inteso come spazio naturale, istituzionale e sociale, si è attinto ad archivi pubblici e privati e interrogato fonti eterogenee, inclusa la cronaca giudiziaria e giornalistica, nonché le memorie familiari e personali della comunità che lo ha attraversato.
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Fabio Bozzato
Caracas, come non fosse mai stata lì
Non c’è alcun realismo magico in America Latina. Tantomeno a Caracas. Raccontarla in chiaroscuro, ad esempio, non è un modo di dire: significa solo seguire il ritmo dei suoi black-out. Anche qui, come altrove, si dice “me importa un bledo”, ma il bledo qui cresceva davvero. La polvere di stelle è reale: copre la Urdaneta con una coltre untuosa, là dove un tempo palpitava la più chic delle capitali latine.
L’inconscio di Caracas è un enorme fiume, che da centinaia di chilometri di distanza proietta l’ombra dei suoi desideri. La sua coscienza, piuttosto sporca, è un altro fiume, quasi un rigagnolo, che la segna da ovest a est. La montagna che la domina è un riferimento rassicurante e una barriera ambigua.
Di giorno il cielo di Caracas è una festa di guacamayas, la notte una giostra di spari e cacerolazos. Caracas è un incubo e una meraviglia, un marchingegno selvatico e sofisticato. Mentre cammini ti puoi imbattere in un’opera d’arte cinetica. Mentre stai scappando dai lacrimogeni della polizia, può capitarti di incontrare due braccia dove rifugiarti per una notte.
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Harold Fallon, Amanda F. Grzyb, Thomas Montulet
Guinda
Il 14 maggio 1980, durante la guerra civile salvadoregna (1980-1992), le forze armate, la Guardia Nazionale e le truppe paramilitari ORDEN uccisero 600 civili a Las Aradas, Chalatenango. Le guindas condussero i civili in questa zona storicamente demilitarizzata, dove cercarono rifugio dalla tattica militare di bruciare la terra. Secondo un sopravvissuto, guinda significa “correre senza meta, camminare giorno e notte, dormire nella boscaglia all’aperto, sopportare la fame e le forti piogge, nascondersi per evitare di essere trovati dall’esercito e dai paramilitari per salvarsi la vita”. Oggi le comunità si riuniscono ogni anno per commemorare le vittime in azioni critiche di lutto collettivo e di memoria. L’articolo esplora la definizione di guinda attraverso le testimonianze, il movimento, il paesaggio, la commemorazione e le fasi di progettazione del memoriale in cui gli autori sono attualmente coinvolti. Questa ricerca è sostenuta dal Social Sciences and Humanities Research Council of Canada.
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Josep-Maria Garcia-Fuentes
Habitat
Sia la parola sia il concetto di “habitat” sono moderni. Abitare non è né una condizione naturale né artificiale, ma entrambe. La ricerca sull’habitat si è fatta strada nelle scienze prima che la parola assumesse il significato convenzionale che indica l’abitazione naturale. Contemporaneamente, i giardini zoologici sono diventati rapidamente istituzioni privilegiate per indagarne sia il lato scientifico sia quello popolare. La costruzione del Penguin’s Pond da parte della Tecton Company e di Berthold Lubetkin nel 1934 fu infatti legata alla leadership scientifica pionieristica della Royal Zoological Society di Londra. L’analisi originale del progetto rivela il programma di ricerca unico di Lubetkin per far coesistere architettura e natura, come rivela l’attenzione verso le ombre proiettate dalle foglie degli alberi sui muri bianchi del Pond. Le opere di Lubetkin ci ricordano l’origine moderna della parola habitat: il selvatico e l’artificiale si integrano a vicenda per ricreare l’habitat ideale per ogni animale, uomo compreso.
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Ishita Jain
Immanence
La voce del dizionario definisce l’“immanenza” individuando come sua energia creativa le foreste aggrovigliate all’interno dello Sharmanka Kinetic Theatre di Glasgow. L’articolo sostiene che il lavoro estetico deve possedere una struttura creativa immanente a sé stesso. Sharmanka è un assemblaggio dei molteplici luoghi attraversati dal meccanico-scultore Eduard Bersudsky mentre esplorava, come artista anticonformista, gli spazi del fare e dell’esporre arte nella Russia sovietica. Bersudsky occupò gli spazi progettati dal regime e ne trasformò le funzioni; tale azione produsse mutamenti anche negli stati soggettivi dello scultore. Questa voce stabilisce l’immanenza come forza silvestre segreta con la capacità di liberare i molteplici stati soggettivi dell’artista nel suo lavoro, trasformandolo in un’opera vissuta. Sharmanka rende visibile la soggettività immanente dell’architetto dell’opera come oggetto estetico stesso, senza alcuna mediazione interpretativa.
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Nicola Di Croce
Opaco
L’opacità è la proprietà di un corpo di non lasciarsi attraversare dalla luce, è un velo che si posa sugli oggetti interrompendo la loro trasparenza. Per questo motivo l’opaco disorienta e allo stesso tempo spinge l’osservatore a cercare percorsi alternativi di conoscenza: ad abbandonare il primato della vista per avvicinarsi alla scoperta del mondo attraverso gli altri sensi, attraverso l’ascolto critico dell’ambiente. Il testo si interroga sulla difficoltà di guardare al mondo come a un oggetto sempre riconoscibile e rappresentabile, e dichiara la necessità di elaborare strategie di lettura dell’opaco inedite, capaci di interpretare gli effetti delle azioni umane e di inaugurare nuove ecologie politiche. In mancanza di coordinate visibili chiare, l’ascolto si presenta allora come un dispositivo particolarmente adatto a interpretare gli effetti e gli affetti, ovvero gli impatti dell’azione dell’uomo sul quotidiano.
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Annalisa Metta
Pan
Nei miti, i mostri sono incontri sovrannaturali tra umano e selvatico. Pan è tra più eloquenti, per l’aspetto aberrante e l’urlo che getta nel timor panico. Uomo e capro, dio dell’arcadia e degli inferi, Pan è la gioiosa ferocia della difformità e incarna mutazioni evolutive che infrangono i limiti assegnati alle specie. Su di lui in età cristiana si modella l’aspetto del demonio, monito che l’incontro con il selvatico è irresistibile ma pericoloso. Pan è il re di una città che offusca ogni demarcazione tra natura e civiltà: non ha rimorso di urbanità, né rimpianto di Eden; accoglie tutte le manifestazioni del vivente e trova qualità nelle frizioni delle compresenze. Il suo valore è in questa complessità, nell’intrecciarsi tra proibito e trasgressione, in combinazioni imprendibili di processi ecologici e sociali autopoietici, dove ci scopriamo a desiderare la sorpresa, il piacere, la mescolanza, l’incertezza, l’alterità, la metamorfosi.
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Alessandro Gabbianelli
Quarto
Nella città post-industriale, l’abbandono di siti industriali e di infrastrutture hanno dato vita a una moltitudine di spazi caratterizzati da una nuova natura, quella che l’ecologo tedesco Ingo Kowarik ha chiamato “quarta natura”. Questa si riferisce alle specie vegetali pioniere, alloctone che nascono e crescono in modo spontaneo all’interno di un contesto urbano aumentandone la biodiversità e dando vita a nuovi ecosistemi auto-organizzati. Grazie a un importante processo di fascinazione per il selvatico urbano, il progetto di paesaggio contemporaneo esplora, da qualche tempo, differenti strategie per sfruttare le potenzialità ecologiche, fruitive e sociali dei siti urbani dove è presente la quarta natura. La trasformazione dell’ex stazione ferroviaria Südgelände a Berlino costituisce uno degli esempi più rappresentativi. Il progetto del parco ha saputo ri-concettualizzare ed enfatizzare la quarta natura rendendola il materiale principale attorno al quale impostare la spazialità del parco esaltandone le caratteristiche ecologiche, estetiche e culturali, e accogliendone il grado di indeterminatezza.
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