
Esili e esodi
Autunno-inverno 2020
in copertina:
Stefano Graziani, Ceruleo che varia dal blu profondo fino all’azzurro, quasi sempre passando attraverso tonalità di verde, Trieste, 2013
Tutti i contributi pubblicati in questo numero sono stati sottoposti a un procedimento di revisione tra pari (Double-Blind Peer Review) ai sensi del Regolamento Anvur per la classificazione delle riviste nelle aree non bibliometriche, ad eccezione dei testi presenti nelle rubriche Citazione, Inserto e Racconto.
ISSN 2704-7598
ISBN 978-88-229-0635-9
DOI 10.1400/283821
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Due movimenti, forse antitetici, interessano lo spazio. Singoli individui si autoescludono, escono dalla propria terra (exilium, exsul, ex-solum), si ritirano in altra condizione, depongono il potere da dentro, evitano il potere che frena. L’esilio può essere una scelta individuale ma anche una costrizione che investe, per sommatoria, un grande numero. Al contempo popoli, animali, organismi vegetali sono in esodo, si muovono, scappano, migrano, mutando il disegno e il senso del territorio e delle geografie.
Tre figure prendono corpo da questi moti: lo spazio del viaggio e le tracce dell’attraversamento, la meta o semplicemente il luogo dell’arrivo e infine l’immagine della casa, della città o della “patria” abbandonata. Queste figure accomunano i due movimenti: certo nell’esilio il viaggio può essere istantaneo, può durare il tempo di una decisione, di un rifiuto, della stesura di un testo, del chiudere una porta, mentre nell’esodo il cammino può rivelarsi la meta stessa, in fuga è possibile fermarsi doverosamente, forzatamente, per scelta.
Esili ed esodi si sedimentano nella storia, trovano a volte spazio nella cronaca con aggiornati accenti, mentre si reitera la necessità di uno sguardo posto alla giusta distanza, silenziosamente si posano le pietre di altre città e si rinnova il teorema della mescolanza. I due movimenti ci raccontano forse le storie di nuove e ripetute genesi.
Autori
Sara Marini (Editoriale); Julio Cortázar (Citazione); Renato Rizzi (Progetti); Marina Caneve (Progetti); Marco D’Annuntiis, Sara Cipolletti (Progetti); Umberto Napolitano, Silvia Lista, Research Lab RAAR (Progetti); Fernando J. Devoto (Saggi); Fulvio Lenzo (Saggi); Luca Molinari (Saggi); Daria Ricchi (Saggi); Dario Cecchi (Saggi); Antoni Muntadas (Inserto); Margherita Moscardini (Viaggio); Massimo Crispi (Racconti); Redazione Vesper (Racconti); Miguel Angel Valdivia + Francesco Migliaccio (Racconti); Carlotta Sylos Calò (Archivi); Salvatore Aprea, Serena Maffioletti (Archivi); Maroje Mrduljaš (Archivi); Marius Grønning (Dizionario); Alessandro Orsini (Dizionario); Flavia Zelli, Darío Álvarez Álvarez, Miguel Ángel de la Iglesia Santamaría (Dizionario); Ludovico Centis (Dizionario); Federico Letizia (Dizionario); Monica Pastore (Dizionario).
Indice
Abstract e contributi in accesso aperto
Sara Marini
Esili e esodi
Due movimenti, forse antitetici, interessano lo spazio. Singoli individui si autoescludono, escono dalla propria terra (exilium, exsul, ex-solum), si ritirano in altra condizione, depongono il potere da dentro, evitano il potere che frena. L’esilio può essere una scelta individuale ma anche una costrizione che investe, per sommatoria, un grande numero. Al contempo popoli, animali, organismi vegetali sono in esodo, si muovono, scappano, migrano, mutando il disegno e il senso del territorio e delle geografie.
Tre figure prendono corpo da questi moti: lo spazio del viaggio e le tracce dell’attraversamento, la meta o semplicemente il luogo dell’arrivo e infine l’immagine della casa, della città o della “patria” abbandonata. Queste figure accomunano i due movimenti: certo nell’esilio il viaggio può essere istantaneo, può durare il tempo di una decisione, di un rifiuto, della stesura di un testo, del chiudere una porta, mentre nell’esodo il cammino può rivelarsi la meta stessa, in fuga è possibile fermarsi doverosamente, forzatamente, per scelta.
Esili ed esodi si sedimentano nella storia, trovano a volte spazio nella cronaca con aggiornati accenti, mentre si reitera la necessità di uno sguardo posto alla giusta distanza, silenziosamente si posano le pietre di altre città e si rinnova il teorema della mescolanza. I due movimenti ci raccontano forse le storie di nuove e ripetute genesi.
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Julio Cortázar
Ajar
Breve estratto da Julio Cortázar, Casa occupata, in Idem, Bestiario, Einaudi, Torino 2019, pp. 5-7 (originariamente Casa tomada, “Los anales de Buenos Aires”, 1946), commentato da una selezione di scatti dalla serie Arbiter di Luca Capuano (2016).
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Renato Rizzi
Orfani
In un mondo che vuole essere sempre più interconnesso noi siamo sempre più soli. Sempre più abbandonati. Orfani, non dei corpi, ma dell’anima: universale-individuale.
Tra l’altro possediamo un termine così eloquente che riflette come uno specchio la struttura semantico-simbolica del nostro essere: Architettura. Arché, anima. Téchne, corpo.
Perdendo l’anima (delle cose) si perdono però le forze reali che plasmano le forme delle cose.
Ma il transito tra corpi e anima è rischioso e dispendioso. Orfeo, il grande orfano mitico, è l’immagine di quel viaggio che tutti noi dobbiamo fare e ripetere in ogni esistenza. Soprattutto l’architetto. Orfeo (il poeta, il produttore per eccellenza!!) innamorato di Euridice. L’architetto (dovrebbe essere) innamorato (con la stessa intensità) di Architettura. Anche noi dovremmo riuscire a smuovere e commuovere le montagne per farle morire dalla voglia di vedere le opere che creiamo (non quelle che produciamo).
Orfano-Orfeo: più dell’etimologia, vale l’armonia del suono della voce (la phoné delle parole).
E dov’è il “suono” che avvolge le nostre architetture orfane?
La nostra condizione di architetto non si separerà mai da quella dell’esule, dell’eretico, del rifugiato (nell’anima). Del proprio sacrificio… la garanzia che quando saremo morti potremo davvero vivere.
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Marina Caneve
Ponti, migrazioni, una sola terra
Da alcuni decenni l’Europa è impegnata in un progetto condiviso di disegno di un network ecologico pensato per preservare e incentivare la biodiversità attraverso l’Unione. Al suo interno i collegamenti avvengono tramite una rete di ponti, denominati ecodotti o wildlife crossings, messi a fuoco con il progetto fotografico Beautiful Bridges. A Migration System Breaking All European Borders (2015 – in corso), da cui prende le mosse il contributo. La ricerca evidenzia una serie di riflessioni sulla forma e il linguaggio delle infrastrutture e in particolare sul ruolo che esse rivestono nella libertà di movimento. Mettere in scena una rete di ponti sottolinea il delicato paradosso che risiede nel passaggio tra natura e cultura, constatando da un lato il dibattito politico sui flussi migratori e il ripristino dei confini nazionali e dall’altro le ingenti somme di denaro investite dall’Unione Europea nella realizzazione di un’architettura dedicata alla fauna selvatica che mira a superare i confini politici e i limiti fisici, per incentivare la libertà di movimento in una sola terra
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Marco D’Annuntiis, Sara Cipolletti
Casamondo
Le migrazioni si stanno configurando quale enzima potente delle trasformazioni urbane e costituiscono uno dei livelli di senso della città contemporanea. Delineano nuovi paradigmi e concorrono a diluire condizioni metropolitane in contesti rurali e provinciali, coagulandosi improvvisamente in nuovi punti cospicui.
Il contributo opera un’articolata riflessione sul mutamento genetico dell’Hotel House, un grande edificio di 16 piani e 480 alloggi situato sul litorale medio-adriatico, progettato come struttura turistica per la villeggiatura balneare, divenuto poi condominio dell’abitare stanziale, per famiglie a basso reddito in prevalenza straniere. Il crollo del valore dell’immobile, accelerato negli ultimi decenni da episodi di degrado e violenza, lo ha consolidato come territorio marginale.
Dal 2018 l’Hotel House è oggetto di un piano di lavoro Capacity Building, denominato Progetto Challenge, finanziato da Fami (Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione) 2014-2020, che ha l’obiettivo di migliorare il sistema infrastrutturale, l’assetto e la funzionalità dei servizi pubblici a favore dei cittadini dei Paesi Terzi.
Il monolite apparentemente impenetrabile e omogeneo è letto come realtà porosa, umanamente ricca, legata alla scala geografica globale, una casamondo.
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Umberto Napolitano, Silvia Lista, Research Lab RAAR
Chiusi fuori
Il concetto di limite in architettura è quanto mai attuale. La complessità del presente richiede un ripensamento dell’uso, esclusivamente normativo e funzionale, del limite come separazione (finis) e una riappropriazione del significato, più ampio e non determinante, del limite come spessore e frontiera estesa (limes). Per gli effetti sociologici, politici, ecologici ed economici che produce, la plasticità del limite è oggi un ambito di ricerca cruciale.
L’accostamento della riflessione sul limite all’evoluzione del tema dell’architettura carceraria offre l’opportunità di mettere alla prova la dimensione paradossale dell’uno e l’idea di assoluta ermeticità dell’altra. Aperture interessanti sorgono dal confronto tra la tipologia architettonica classica del penitenziario e la riflessione sociologica su sistemi disciplinari più contemporanei, come illustra il progetto del Quartiere di Semi-Libertà di Nanterre.
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Fernando J. Devoto
Appunti sugli usi delle nozioni di esilio, esodo e dintorni
L’articolo esplora due nozioni, esodo ed esilio, nei loro molteplici usi e significati. A partire dalle potenzialità quasi illimitate del linguaggio, e dalle diverse strategie degli studiosi, le stesse parole acquisiscono nuovi e opposti significati a seconda dei momenti e dei luoghi. Per altri versi, gli usi del ricercatore e gli usi dei protagonisti sono differenti. Ciò fa sì che le nozioni di esodo ed esilio si comprendano meglio se le si colloca in un insieme più ampio di parole affini. Si suggerisce qui che nessun uso è vietato anche se al ricercatore nelle scienze sociali sarebbe richiesto di indicare in quale senso le utilizza, a beneficio del lettore. In ogni caso, in un contesto di instabilità inevitabile si può incontrare in queste due parole polisemiche la tenue perdurabilità di alcune tracce originarie: per esempio, riferimenti epico-mitici nella voce esodo o una ambivalenza tra castigo del potere e libertà del soggetto nella voce esilio.
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Fulvio Lenzo
Ambasciatori, banditi, spie. Le “liste” nella Venezia del Settecento
La graduale perdita di peso politico di Venezia sullo scenario internazionale nel corso del Sei e Settecento corrisponde parallelamente a un aumento della sua importanza come luogo neutrale di confronto – e di scontro – fra le diplomazie internazionali. È il luogo fisico dell’ambasciata ad assumere il ruolo di “campo di battaglia” di contrapposizioni che, seppur spesso riducibili a questioni di precedenza e protocollo apparentemente banali, erano in realtà rappresentazione figurata di reali rapporti di forza. Le sedi diplomatiche godevano di immunità diplomatica, un diritto che gli ambasciatori intendevano far valere anche nelle immediate vicinanze, chiamate “liste”. Qui trovavano alloggio i servitori e i negozianti al servizio dell’ambasciata, le cui merci, per il solo fatto di essere destinate al rappresentante di un sovrano straniero, erano esenti dal pagamento di dazi. Ma le liste, impenetrabili agli sbirri, erano anche il rifugio di contrabbandieri, giocatori d’azzardo e avventurieri “banditi” da Venezia: non di rado, del resto, gli ambasciatori reclutavano questi personaggi per operazioni riservate e maneggi segreti. Per questo carattere precipuo, le liste erano tenute d'occhio molto da vicino dalle spie degli Inquisitori di Stato.
Gli abitanti di questo vivace sottobosco condividevano con i loro più influenti vicini la condizione di esclusi dalla vita della città, dal momento che anche gli ambasciatori erano costretti a un’analoga segregazione, essendo loro vietato per legge non solo di avere contatti diretti con i patrizi veneziani – cosa che li escludeva da feste, eventi mondani e circoli culturali – ma finanche di frequentare gli stessi negozi di barbiere, casini da gioco o case di tolleranza frequentate dai nobili locali.
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Luca Molinari
Le solitudini dell’architetto
All’interno del “Mare chiuso” si individua una serie di micro-storie che raccolgono le due strade apparentemente separate, ma invece profondamente integrate, tra l’esilio come scelta radicale di autonomia e l’esodo come condizione subita che porta a forme di mescolanza necessarie, affinché il progetto di architettura si radichi con successo nel luogo.
Mescolanza e autonomia sono due condizioni che nutrono, in maniera differente, la ricerca originale di autori che non possono sopportare lo stato di appiattimento culturale, politico e sociale in cui sono immersi. E la circostanza attuale, dominata da un esperanto tecnico e linguistico che sembra annullare ogni differenza in nome di una assoluta efficienza ambientale e finanziaria, sta vivendo una crisi profonda delle ricerche autonome e di quelle sperimentazioni che possono portare a scenari alternativi. La riflessione critica propone e analizza in parallelo la ricerca di autonomia, attraverso forme estreme di auto-esilio (l’esperienza di Utzon a Maiorca) e ricerca di forme di creolizzazione linguistica e progettuale (i “local heroes” tra Beirut, Istanbul, Marsiglia, Barcellona e l’Italia del Sud), visti come i due poli necessari per il ripensamento sull’architettura contemporanea e il superamento di una condizione di crisi in cui è avvolta da almeno due decenni. Gli autori su cui si concentra il contributo appariranno figure tragiche perché descrivono la fine dell’architetto demiurgo moderno e l’emergere di figure impastate nella realtà e nelle sue contraddizioni, offrendo una idea di fragilità del progetto di architettura che ci potrebbe liberare definitivamente della sacralità romantica dell’autore, consegnandoci progettisti immersi nel mondo. L’isolamento subito e ricercato diventa una risorsa per ridurre il rumore di fondo e cercare nuove traiettorie di dialogo e di produzione di visioni utili al superamento di questa condizione.
Esodo ed esilio sono le due facce di un unico fenomeno che afferma la centralità del pensiero autonomo di un autore e insieme il bisogno vitale di mescolare pensieri, azioni e simboli per rinnovarli e renderli utili alle comunità in cui agiranno.
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Daria Ricchi
Jet Lag. Esodo dal viaggio e dal domestico nell’opera di Diller + Scofidio
Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio in molte delle loro opere di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, hanno esplorato, con il loro studio, il tema del viaggio e, esattamente all’opposto, del domestico. Il viaggio è inteso come esplorazione sia della psiche e del corpo, sia delle storie personali e collettive, e inoltre come investigazione di territori altri estranei al quotidiano. Il viaggio è codificato anche come fuga ed esodo da se stessi alla ricerca di un altrove. Più spesso, al centro delle loro sperimentazioni progettuali ed artistiche risiedono la tensione e la mancanza di equilibrio tra viaggio ed esilio alla ricerca di domesticità e familiarità. Lo studio newyorkese suggerisce e offre diversi spunti per scavare più a fondo in quel bisogno, in quella impellenza innata dell’uomo di collocarsi nel tempo e nella storia, di fuggire da se stesso. Il risultato è creare altre storie della propria vita, con il tentativo di continuare a cercare l’esodo da un altro altrove.
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Dario Cecchi
Montaggi di esodo. L’immagine tra tensioni etiche e direzioni politiche
Esodo ed esilio possono essere a buon diritto considerati come vere e proprie figure moderne del politico. Se l’esodo, seguendo il modello biblico, rimanda all’idea di emancipazione, l’esilio rinvia invece all’idea di un possibile rimpatrio, ovvero di un espatrio senza ritorno.
Guardando alla tradizione filosofico-politica novecentesca, le due categorie appaiono intrecciate e sovrapposte, rimandando alla questione della rifondazione o nuova fondazione di uno spazio pubblico in cui le istanze di libertà e giustizia siano formulate secondo schemi inediti. È a Benjamin che dobbiamo in particolare la messa a punto dell’idea secondo cui è possibile ricondurre la politica alla sua “immagine dialettica”. È ad Hannah Arendt che va il merito di aver ripensato l’attore politico nei termini di un narratore, il quale esibisce un giudizio esemplare sui fatti di cui ella o egli è partecipe in prima persona. Se la figura dell’esodo, dunque, apre un orizzonte virtualmente infinito di libertà nello spazio pubblico, la figura dell’esilio interviene a indicare nel singolo caso esemplare i confini della giustizia esigibile. Si tratta di un tema emerso con forza negli ultimi anni, in correlazione con la crisi migratoria e umanitaria, e che ha trovato molteplici riscontri nelle arti.
In tutti questi casi l’esiliato sembra proporsi come la figura di un “fantasma” del politico, il quale paradossalmente esiste solo nel futuro, in quanto negozia i termini del suo ritorno e riconfigura così lo spazio condiviso con gli altri. Sulla scia del paradigma dell’immagine intesa come “messa in riserva dei segni”, si potrebbe parlare della figura dell’esilio come di un operatore della violenza rimossa nella figura dell’esodo.
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Antoni Muntadas
Cercas
La serie Cercas (Recinzioni) è stata concepita originariamente per il progetto La Construcción del Miedo (La costruzione della paura) e in particolare per l’opera ambienta a San Paolo, Alphaville e outros.
Recinzioni di legno, filo spinato, sbarre, muri, telecamere, allarmi, televisioni a circuito chiuso, radar, cani, guardie giurate e sistemi elettronici sono alcuni dei dispositivi messi che intervengono nei nuovi spazi privati e pubblici apparentemente per ragioni di sicurezza, sorveglianza e protezione. La trasparenza delle facciate continue e degli involucri in vetro trasmette la falsa impressione di un’architettura controllata, in cui spazi privati e pubblici sono pervasi da stati mentali quali l’insicurezza, la paranoia e la paura.
La conformazione delle città è stata definita e si è sviluppata attraverso progetti di urbanizzazione che hanno dilatato il centro e generato periferie. Queste periferie, a loro volta, sono fonte di paradossi tra pubblico e privato, tra i più ricchi e i più poveri, terreno di nuove roccaforti in cui l’industria della sicurezza e della sorveglianza trova terreno fertile per il proprio sviluppo.
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Margherita Moscardini
Le fontane di Za’atari. Abitare senza appartenere
Il campo per rifugiati di Za’atari nasce in Giordania per ricevere la popolazione siriana in fuga dalla guerra e presto diventa per estensione la quarta città del Paese, dove sono costruite infrastrutture all’avanguardia e l’ambiente privato è organizzato sul modello della casa con cortile (e fontana) diffusa nel mondo arabo. Le fontane di Za’atari, i monumenti privati della città, sono il viaggio del popolo siriano che, all’interno di un campo, dimostra che se il cittadino è facilitato a costituirsi come comunità (civitas) che si regolamenta (polis) e forgia l’ambiente materiale in base ai propri bisogni (urbs), allora può realizzare la cittadinanza che da tempo riconosciamo essere ri-orientata al di fuori della nazione e verso il risiedere, l’abitare.
Nel 2015, l’esodo siriano in Europa mette in crisi i principi fondativi su cui erano nati i suoi Stati nazionali, chiamando un cambio di paradigma che protegga il cittadino su criteri differenti dall’appartenenza territoriale e magari sulla base del diritto al viaggio dei popoli, al di sopra dell’esilio del singolo.
Il viaggio delle fontane di Za’atari in Europa diventa allora un tentativo delle arti di uscire dal simbolo e seminare porzioni di territori senza Stato, sculture come pietre di fondazione di una città portatrice di un’altra idea di cittadinanza.
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Massimo Crispi
L'isola
Nella prigione dell’Isola sono rinchiusi criminali d’ogni tipo. L’essere costretti in uno spazio al di fuori di una supposta normalità esterna ne fa degli esuli, chi temporaneo, chi permanente. Tra questi ultimi è un giovane tunisino, un ragazzo pieno di poesia, che è stato condannato per aver ucciso il secondo marito della madre, un uomo violento che picchiava tutti. Il suo carisma poetico lo fa benvolere da chiunque all’interno dell’Isola e si esprime attraverso le canzoni che Mohamed compone. Affiderà il suo viatico al vento.
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Redazione Vesper
Lieb House. Building a Second Life
Venerdì 13 marzo 2009, Long Beach (NJ). Alle 07.30 gli architetti Robert Venturi e Denise Scott Brown giungono all’appezzamento sabbioso della Marina di Barnegat Light per assistere alle operazioni di imbarco operate da un team della Wolfe House & Building Movers di Bernville. Dopo aver stanziato per sei settimane in un parcheggio del molo a seguito della rimozione dalle palificazioni su cui poggiava dal 1967 al civico 9 della East 30th Street nella comunità di Loveladies è finalmente giunto il giorno più importante per l’esodo della Lieb House: l’inizio della traversata.
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cyop&kaf, Miguel Angel Valdivia + Francesco Migliaccio
Invisibili
Nel nostro tempo di individualismi, la presenza dell’io è un grave che distorce lo spaziotempo del convivere sociale. L’invisibilità è la dote di chi si sgrava fino al punto di scomparire alla vista. Non è forse invisibile quel lampadario che abita da anni la nostra stanza? Intorno all’invisibile il mondo continua a esistere, e si mostra. Invisibili sono stati cyop&kaf quando hanno ripreso gli antichi riti del fuoco tenuti vivi dai ragazzi dei quartieri napoletani. Sbaglia chi crede che l’invisibilità sia la via dell’oggettività o dell’astrazione. L’invisibile, anzi, è pura soggettività integrata nell’ambiente: egli c’è, ma si sente a stento. È la condizione dei fantasmi.
Il contributo si compone di un testo di Francesco Migliacco e di una storia illustrata di cyop&kaf e Miguel Angel Valdivia.
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Carlotta Sylos Calò
Alighiero Boetti lo stra-vagante
L’esodo e il viaggio sono temi profondamente legati alla ricerca umana e artistica di Alighiero Boetti e si ritrovano tanto nell’atteggiamento edonista che vede il viaggio come spazio ideale dell’incontro con emozioni e forme da cui ripartire, ma anche come attenzione per i movimenti derivati dai conflitti nascenti. Entrambe le accezioni, quella personale e quella globale, che lo stesso artista riuniva nel suo “interesse per le cose lontane”, sono parte fondante di una postura di “accrescimento” della propria individualità che ha accompagnato l’artista lungo tutto l’arco della sua vita e del suo lavoro. I segni, le tracce, le impronte, i codici derivati da queste esperienze dirette e indirette di viaggio costituiscono infatti le micce per costruire le sue opere, come d’altronde accade con forme e oggetti del quotidiano (i giochi dei figli, una scatola di fois gras, la copertina di una rivista). In questo scritto, seguendo il filo tracciato da una selezione di materiali conservati presso l’Archivio Alighiero Boetti, si propone l’analisi di alcuni lavori realizzati negli anni precedenti e successivi al suo trasferimento da Torino a Roma, forse il viaggio più importante compiuto dall’artista. Le opere esaminate – Dodici forme dal giugno 1967, Territori occupati (1971-1973) – sono testimonianze della straordinaria capacità di arrivare all’essenziale e di quella libertà dell’artista che Anne Marie Sauzeau ha definito “stra-vaganza”.
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Salvatore Aprea, Serena Maffioletti
Esilio e resilienza. Gli studi universitari al campo di internamento di Losanna
L’articolo indaga la produzione intellettuale sviluppata dai rifugiati italiani ospiti nel campo d’internamento universitario inaugurato a Losanna nel gennaio 1944 ed attivo fino alla primavera del 1945, quando essi rientrano in Italia. Nel complesso e controverso sistema elvetico per l’accoglienza degli esuli durante la Seconda guerra mondiale, il campo di Losanna rappresenta l’occasione per i giovani militari tanto di proseguire gli studi interrotti, quanto e soprattutto di rinnovare la cultura progettuale in vista dell’imminente, difficile ricostruzione, ma anche di sviluppare strette relazioni fra progettisti italiani e svizzeri. Diretto dallo scienziato Gustavo Colonnetti, nel campo gravitano come docenti o studenti i futuri protagonisti italiani: tra gli ingegneri Renzo Zorzi, Aldo Favini, Franco Levi, tra gli architetti Ernesto N. Rogers, Giulio Minoletti, Vico Magistretti… La didattica del campo s’intreccia con le ricerche condotte dal Centro studi per l’edilizia e dal “Bollettino del Centro studi per l’edilizia”, ivi costituiti, formando così il prezioso lascito di un periodo di esilio e di rinascita.
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Maroje Mrduljaš
Una macchina biopolitica. L’Hotel Emigranti
All’inizio del XX secolo, il flusso migratorio proveniente dalla duplice monarchia austro-ungarica aveva raggiunto il suo picco. L’Ungheria si rese conto che non solo stava perdendo il controllo sul processo di emigrazione, ma anche che i viaggi in partenza dai porti affacciati sull’Oceano Atlantico costituivano una diretta perdita economica per Fiume (Rijeka), l’unico porto ungherese. Il regno magiaro promulgò così delle leggi per le quali Fiume divenne l’unico punto di imbarco possibile e nel 1903 venne attivata la linea diretta Fiume-New York. Il crescente numero di emigranti a Fiume fece allora sorgere problemi legati all’alloggio, con la conseguente paura per l’insorgere di infezioni e criminalità. Fu per questi motivi che le autorità incaricarono l’ingegner Szilárd Zielinski di progettare tra il 1906 e il 1907 l’Hotel Emigranti. Il progetto integrava varie funzioni volte alla sanificazione dei passeggeri e dei loro bagagli, all’elaborazione e alla classificazione di dati medici e amministrativi, all’equipaggiamento di spazi isolati per gli alloggi e le aree destinate alla socializzazione degli emigranti. Situato al limite della zona dei depositi, l’Hotel funzionava come un lazzaretto all’inverso, una macchina bio-politica che regolava completamente il flusso di migranti. Nel 1914 l’hotel perse la sua funzione originale.
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Marius Grønning
Journey
Le esperienze di esodo ed esilio sono il prodotto di tensioni tra popolazione e territorio. Dovrebbero ricordarci che le nostre rappresentazioni sociali includono una delimitazione spaziale. L’articolo esplora l’interterritorialità e la pratica di mobilità che implica. Un primo passo è riconoscere che le distanze che separano i gruppi sociali possono essere attraversate, generando scambio e coerenza culturale al di là di territorio, sistema di governo e cittadinanza. Un secondo passo è vedere le connessioni interterritoriali dal punto di vista del viaggiatore, e come i viaggi costituiscano una esperienza collettiva, una narrativa condivisa, una forma culturale che plasma la nostra collettiva coscienza di possibili configurazioni socio-spaziali. Il terzo passo è considerare come l’esperienza con luoghi diversamente configurati possa condurre a proiezioni – e progetti – che riconfigurano le nostre città. Questa esplorazione può consentirci di vedere oltre le nostre attuali preoccupazioni relative alle politiche migratorie, e apprezzare il viaggio per il suo ruolo storico strutturante.
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Alessandro Orsini
Key
All’interno degli Stati Uniti d’America durante tutto il XX secolo, con le migrazioni degli afroamericani dal sud al nord industrializzato, alcune ideologie evolsero in strumenti per il controllo e l’accessibilità delle proprietà private, in particolare dell’edilizia abitativa. Gli sforzi del governo erano stati progettati per fornire alloggio alle famiglie bianche della classe media, mentre gli afroamericani vennero segregati in specifiche aree e tipologie urbane. Fu istituito un sistema di discriminazione attraverso un processo chiamato “redlining”, che limitava chi potesse ottenere mutui e dove potessero essere costruite le case per questa fascia della popolazione. Nel 1968 fu approvato l’Housing and Urban Development Act che promuoveva l’uguaglianza nel settore immobiliare e facilitava l’acquisto di case da parte di acquirenti afroamericani attraverso l’accesso ai mutui agevolati. Ben presto, le pratiche discriminatorie del “redlining” si trasformarono però in un fenomeno di inclusione predatoria in cui banchieri e broker immobiliari lavorarono per sostenere politiche abitative che rafforzassero le disuguaglianze, utilizzando la razza per la produzione di capitale di enti privati.
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Flavia Zelli, Darío Álvarez Álvarez, Miguel Ángel de la Iglesia Santamaría
Lost
L’esilio comporta una perdita. L’abbandono, forzato, del luogo di appartenenza origina un senso di rammarico che segna irrimediabilmente popoli interi, trasmettendo la nostalgia di qualcosa che non si possiede più ma che allo stesso tempo è tangibile. In tal senso, l’architettura si configura come strumento privilegiato per risarcire la perdita, permettendo di recuperare la memoria del luogo e alleviare la nostalgia. Il contributo affronta questa accezione di esilio attraversando la strategia applicata nel Giardino di Sefarad: uno spazio simbolico realizzato con l’obiettivo sia di costruire un tumulo – funzionale alla sepoltura dei resti delle tombe ebraiche rinvenute accidentalmente –, sia, ma allo stesso tempo, di progettare un paesaggio commemorativo, in grado di recuperare la memoria, materializzando l’assenza di ciò che è perduto.
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Ludovico Centis
Nascondiglio
Il nascondiglio è la componente spaziale dell’atto del nascondere, o del nascondersi. Questo è di natura ancestrale, quasi animalesca: può prendere le mosse da una libera scelta o costrizione e generare sentimenti opposti, dal senso di sicurezza all’angoscia e claustrofobia. L’ossessione per l’ambiente domestico come tana, come nascondiglio dal mondo esterno è un topos ricorrente in letteratura – si pensi al racconto La tana di Kafka o al romanzo Controcorrente di Huysmans – così come una manifestazione del rifiuto di una dimensione collettiva dell’architettura. Ossessione non priva di risvolti psicologici, esposti da Freud con le sue riflessioni sul perturbante. Se l’atto del nascondere e del nascondersi può riguardare la propria identità – nella forma dell’anonimato – invece che il proprio corpo o oggetti, questo può paradossalmente anche compiersi non come statico rifugio in un luogo appartato ma come fuga, come incessante spostamento alla luce del sole.
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Federico Letizia
Metropoli
Il significato originale del termine metropoli porta in sé la natura duale del rapporto tra metropoli e colonie, basato su una possibilità di moto o scambio tra luoghi distinti e complementari.
em>Exodus, or The Voluntary Prisoners of Architecture – la proposta presentata nel 1971 da Rem Koolhaas, Elia Zenghelis, Madelon Vriesendorp e Zoe Zenghelis per partecipare al concorso La città come ambiente significante – è uno studio sulla condizione metropolitana il cui intento è quello di contrapporre alle definizioni sfuggenti di metropoli il tentativo di tratteggiarne un profilo. Le immagini e il testo descrivono un cantiere in corso d’opera, la cui estensione è potenzialmente illimitata; uno schema distante dalla tipica πόλις greca – a cui il termine metropoli rimanda etimologicamente – e più vicino alla concezione romana di sviluppo espansionistico.
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Monica Pastore
Lontananza
Il concetto di lontananza genericamente mette in relazione luoghi, persone o accadimenti che sono tra loro più o meno distanti. Nell’ambito della storia del graphic design la condizione di distanza affiora come una transizione capace di innescare uno stato di discontinuità rispetto al precedente. La voce “Lontananza” è studiata attraverso l’analisi della rivista californiana “Emigre. The Magazine That Ignores Boundaries”, artefatto iconico degli anni Ottanta sia per i contenuti, sia per la veste grafica digitale che riflette l’avvento del computer. I fondatori, emigrati negli Stati Uniti, prendono in prestito il vocabolo francese émigré per esplicitare l’intenzione di rivolgersi a chi era lontano dal proprio Paese, agli esuli nella costa occidentale degli Stati Uniti appartenenti a una variegata comunità di artisti, scrittori, designer, fotografi e architetti. Ma “Emigre” segna anche una lontananza tra due mondi del graphic design, tra le terre anglofone caratterizzate da una forte diffusione del computer e le aree geografiche “periferiche” dove l’innovazione linguistica batteva altre vie.
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