Vesper. Rivista di architettura, arti e teoria
Giacomo
Brunelli, Untitled (Bird and Trees),
2006, From “The Animals”. Gelatin silver print
Vesper No. 11 Miserabilia
Call for abstract e call for paper
Fino a quando esisterà, per causa delle leggi e dei
costumi, una dannazione sociale, che crea artificialmente, in piena civiltà,
degli inferni e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino;
fino a quando i tre problemi del secolo, l’abbrutimento dell’uomo
per colpa dell’indigenza, l’avvilimento della donna per colpa della
fame e l’atrofia del fanciullo per colpa delle tenebre, non saranno
risolti; fino a quando, in certe regioni, sarà possibile l’asfissia
sociale; in altre parole, e, sotto un punto di vita ancor più esteso, fino a
quando si avranno sulla terra, ignoranza e miseria, i libri del genere di
questo potranno non essere inutili.
Victor Hugo, I miserabili
Le cases di Tschumi sono vides,
necessariamente svuotate della nostalgia per lasciare spazio a un altro genere
di occupante, non previsto dalla taylorizzazione funzionalista né dagli
accoglienti miti familisti. Per questo Tschumi costruisce cases e non maisons:
«case, una povera casa disgraziata, una capanna come ‘le capanne dei
nativi delle colonie’», dal latino manere, soggiornare o abitare. Le cases
vides di Tschumi riecheggiano, anche se lontanamente e con scarso desiderio
di ritorno, le baracche di innumerevoli popoli esuli a causa di guerre,
carestie o depressioni agrarie. Le loro strutture rosse non significano un
romantico cottage cadente, ma strutture aperte per la banlieue nomade.
Anthony Vidler, Il perturbante
dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea
Miserabilia vuole mettere a fuoco spazi e spettri
della miseria nell’immaginario e nella realtà muovendo da due assunti: la
rimozione dello spazio di esistenza della miseria nella realtà concreta e
immateriale occidentale a favore di “misurabili condizioni di
povertà”; la presenza nelle città di manufatti a testimonianza di un
passato in cui la miseria era “materia” di governo e di progetto.
La miseria
nelle società occidentali è oggi un impensato e un irrappresentabile; risulta
indicibile e invisibile, estromessa in un altrove storico, geografico,
culturale. Eppure, in passato la miseria ha avuto ad esempio in Italia forme
maestose, dalle scuole grandi veneziane agli alberghi dei poveri. Al monumento
sono subentrate le architetture anonime dei centri di servizio o manufatti
temporanei che rispondono a situazioni emergenziali. Se la monumentalità della
miseria esprimeva un’estetica, l’architettura della povertà la
rigetta in nome della funzionalità: oggi lo spazio della miseria risulta
svuotato di fenomenologie, evidenze, qualità, quantità, dimensioni, estensioni,
discorsi.
Allo IUAV di
Venezia il tema ha segnato gli studi che hanno insistito sui nessi tra sistema
capitalistico, configurazione dello spazio e produzione e controllo sociale o
sulle modalità di gestione di disequilibri e conflitti in città (Astengo,
Cacciari, Ceccarelli, De Carlo, Indovina, Secchi, et. al.). La fine della
stagione “politica” che immaginava soluzioni rimediali
nell’ottica di una “abolizione della miseria” ha coinciso con
l’affievolirsi del dialogo tra le discipline solidali nel cercare di
metterla a fuoco.
In
architettura, miseria è stata oggetto di specifica osservazione negli
studi storici dedicati alle imponenti strutture che, accogliendo, istruendo,
controllando gli ultimi, compensavano le grandiose manifestazioni del potere.
Nel 1929 Le Corbusier progetta l’Asile Flottant per i senzatetto
di Parigi; lo stesso autore realizza nel 1933, con Jeanneret e sempre dentro la
capitale francese, la Citè de Rèfuge: monumento alla miseria. Nel 1986 Hejduk
disegna Abandoned Chapel: Housing for the Homeless per Bovisa, e nel
1994 Vidler pubblica The Architectural Uncanny, nel quale sottolinea il
tema dei vagabondi proprio nell’opera di Hejduk. Nel 2004 Clèment in Manifeste
du tiers paysage ribalta l’accezione negativa attribuita allo spazio
scartato mostrandolo come luogo ricco di diversità biologica. Anche la
fotografia ha continuato a indagare la vitalità delle “zone” in cui
la miseria è motore di sperimentazioni sullo spazio pubblico.
Nel 2015
Branzi e De Lucchi curano a Milano la mostra “The Aesthetics of
Misery” proponendo un’indagine su forme e scene della miseria. Nel
2022 a Monaco “Who’s Next? Homelessness, Architecture and
Cities” espone progetti di architettura storica e contemporanea per i
senzatetto. Deliberatamente rimossa dalle città – si pensi all’“architettura
ostile” e ai dispositivi anti-clochard – o associata agli studi
sulla scarsità di risorse e di materiali, la miseria non ha spazio. La scarsità
oggi è, nelle ricerche di diversi progettisti che realizzano opere in ricche
capitali occidentali, un linguaggio, spesso non associato al suo contenuto.
In filosofia,
miseria compare in uno dei luoghi più classici del pensiero occidentale, il Simposio
di Platone: Penia (Miseria e Penuria), accoppiandosi con Poros (Espediente e
Risorsa), genera Eros (Desiderio). In epoca moderna, la miseria resta
altrettanto centrale ma, associata alla scarsità di risorse naturali per la
sussistenza, diventa sempre più prerogativa del discorso economico del primo
liberalismo, che, ad esempio in Smith e Malthus, ruota intorno al bisogno
piuttosto che al desiderio con cui polemizza il nascente socialismo di Filosofia
della miseria di Proudhon (1846), a cui risponde Miseria della filosofia
di Marx (1847).
Foucault in Sécurité,
territoire, population (2004) parla di “invenzione della
povertà” da parte delle arti di governo a partire dal
Seicento-Settecento, che finisce per celare la portata filosofica della
miseria. In Erfahrung und Armut di Benjamin (1933) e Kafka. Pour une
littérature mineure di Deleuze (1975) si assiste a un recupero della
miseria quale categoria filosofica, di cui si evidenzia il senso già platonico
di “potenzialità”, che configura la possibilità di una forma di
vita comunitaria come sottolineato in Altissima povertà da Agamben
(2011). In tempi ancora più recenti, il nesso desiderio-potenzialità della
miseria torna anche nei dibattiti sulla crisi ambientale in quanto alternativa
ai risvolti “governamentali” del discorso della scarsità e del
debito.
In
sociologia, miseria rappresenta una sorta di concetto-limite.
L’esclusione cui allude sembra eccedere ogni forma di solidarietà, come
pure la portata del Verstehen
weberiano e la stessa idea marxiana di classe. Anche un testo eccentrico come Soziologie scritto da Simmel nel 1908 la
elude: il misero non è ricompreso nel gioco di forme della sociazione a
differenza dello straniero, del nemico o del povero. Eppure, anche la miseria
ha una forma spaziale. Tale “spazio di rappresentazione” è stato
denunciato come scandalo in cui viveva the
other half nel testo How the Other Half Lives di Riis (1890) o
esplorato dalla sociologia documentaria dopo il 1929.
La miseria
resta però un objet caché
dell’immaginazione sociologica, relegata ad aree sottosviluppate o
colpite da eventi catastrofici. La sua quotidianità riemerge nel tentativo di
dar voce a soggetti “invisibili” come testimoniato in La misère
du monde di Bourdieu (1993). E va a costituire lo sfondo di diverse
etnografie su forme estreme di marginalità, informalità e violenza lette come
esito di una svolta punitiva e di processi di produzione di hyper-ghettoes
e urban outcast. Come scrive Avery Gordon, se la teoria femminista,
postcoloniale e intersezionale aiuta a pensare la miseria come sessuata,
razzializzata e materialmente (ri)prodotta, la dimensione eccessiva che la
definisce sembra però “accomunare”, indicando qualcosa che resta e
incombe, come uno spettro.
La miseria è
dunque una questione di spazio e di spazialità, nella realtà e
nell’immaginario. In primo luogo, lo spazio architettonico: quello
evidente, teatralizzato e sovraesposto nel passato e quello invisibilizzato,
anonimo, residuale e incombente, dunque spettrale, che progressivamente gli è
subentrato. In secondo luogo, lo spazio filosofico delle parole per designare e
raccontare la miseria. In terzo luogo, lo spazio delle parole tra le persone,
ovvero lo spazio sociale, ciò che Henri Lefebvre designava come territorio di
rappresentazione. Laddove la miseria non è rappresentata o rappresentabile, non
svanisce affatto: nell’anonimato finisce piuttosto per essere
interiorizzata, esprimendosi tutt’al più nella colpevolizzazione e
nell’indebitamento, perfino nella criminalizzazione della povertà, a cui
fa da contraltare l’immiserimento morale dei quartieri benestanti, sempre
più isolati e chiusi al resto della città. Ne scaturisce una urbanità in stato
permanente di crisi, dove lo spettro di una miseria ovunque incombente finisce
per legittimare un’arte di governo dell’emergenza e della
precarietà. Solo lo spazio “smisurato”, scartato, dimenticato,
persiste come ambito in cui la miseria può insediarsi, accamparsi,
riconoscersi.
Vesper è strutturata in rubriche, qui di seguito la call for abstract e la
call for paper a seconda delle tipologie. Tutti i contributi nella loro forma definitiva
saranno sottoposti ad un procedimento di valutazione tra pari secondo i criteri
della Double-Blind Peer Review.
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for abstract e call for paper >>
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Progetto, Saggio, Viaggio, Archivio, Tutorial, Traduzione, Fundamentals
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Rubriche:
Racconto
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paper entro il 1° marzo 2024
Notifica di
accettazione paper entro 15 marzo 2024
Pubblicazione
di Vesper No. 11, novembre 2024
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