The cella was empty (La Cella Era Vuota)
opere di Paul O. Robinson mostra a cura di Agostino de Rosa e Alessio Bortot 25 maggio> 5 giugno 2015 cotonificio spazio espositivo Gino Valle h. 10 > 19 opening 25 maggio 2015 auditorium h.17 |
La forma dell’assenza:
Radiografie|Dipinti|Reliquiari
>>
opening
interventi
Carlo Magnani
direttore
del dipartimento Culture del progetto
Agostino De Rosa
docente
dipartimento Culture del progetto
Robert M. MacLeod
Professor & Director, University of South Florida
School of Architectrue
Paul O.
Robinson
Not From Scratch
La
cella era vuota e note sulla mostra
(traduzione di Francesco Bergamo)
“Ma la fantasia è vasta come l’universo moltiplicato per tutti gli esseri pensanti che lo abitano. È la prima venuta tra le cose, interpretata dal primo venuto; e se quest’ultimo non ha l’anima che getta una luce magica e sovrannaturale sull’oscurità naturale delle cose, essa è un’inutilità orribile, è la prima venuta contaminata dal primo venuto. Qui dunque non vi è più analogia, se non per caso, ma al contrario torbidezza e contrasto, un campo variopinto per assenza di una cultura regolare.”
Charles Baudelaire
“… [nel sogno] Il segreto per penetrare nell’oggetto così da riorganizzare il modo in cui appariva era semplice quanto aprire la porta di un armadio. Forse era soltanto questione di essere lì quando la porta si apriva da sé. Eppure, dopo essermi svegliato, non riuscivo a ricordare come fosse successo e non sapevo più come entrare nelle cose.”
John Berger, “Steps Towards a Small Theory of the Invisible”, 2001
La mostra La Cella
Era Vuota presso l’aula Gino Valle all’Università Iuav di
Venezia indaga le relazioni tra identità e anonimato, nell’ambito della
rappresentazione, come un mezzo per costruire forme basate su immagini e
tridimensionali – enfolded
reliquaries1 - che incarnano l’evidenza degli spazi
occupati e dei loro artefatti, mentre neutralizzano le reciproche differenze
attraverso vari processi trasformazionali. La base concettuale per questo
lavoro emerge in parte dalla lente poetica di Michel Deguy, impiegata per
ristabilire il contenuto narrativo all’interno di processi artistici
formali.
La Cella Era Vuota
di Michel Deguy
Il vuoto come lo chiamano
Ma incastonato
Messo nella segreta dell’arca scavata
sarebbe l’assenza di parte per un tutto
E sottratta allo sguardo
La rinuncia ma pacatamente taciuta
Alla simbolizzazione possibile
Nella poesia La Cella Era Vuota, la Cella può essere intesa come uno spazio corporeo - un corpo presente; il vuoto, posto segretamente all’interno dell’arca scavata. L’arca è scavata: un atto di rimozione il cui risultante spazio liminale incastona il vuoto. Nella Cella di Deguy l’assenza ha un ruolo, è un artefatto tenuto in risonanza al suo interno e legato al potenziale del divenire - della simbolizzazione possibile. Dentro la cella, la rinuncia è allo stesso tempo perdita e riconfigurazione, e lo spirito dell’immaginazione che genera processi di riconfigurazione.
Qui la poesia dev’essere scavata; giace al di sotto della superficie, come le ossa sotto la pelle, tramutando la morfologia di un copro in una salda atmosfera di resistenza costante, formando la forma; come la natura cellulare di una stanza nel definire l’identità e l’anonimato di una città: lo stampo allo stampato, tra l’una e l’altro – antidosis (il termine antidosis è impiegato qui nell’accezione a cui ha dato forma Michel Deguy nella sua poesia in prosa Timberline, dedicata al lavoro presente in Form of Absence: “La parte è il tutto: ciascuna delle due facce che formano il tutto rimanda all’altra: antidosis tra un linguaggio e il mondo; “scambio di una reciprocità di prove…”. Dall’omonimo trattato di Isaocrate, Antidosi (letteralmente: uno scambio). Il doppio è sempre presente, ed è un mezzo per generare processi progettuali trasformativi.
La mostra presenta immagini e talismani spaziali: artefatti dell’abitare che si trovano nel processo di essere riconfigurati; situati e preparati al riuso. Buona parte del copro artefattuale (Artefatto, sostantivo: un prodotto della concezione o dell’azione umana, che si differenzia da un elemento innato; Artefattuale, aggettivo: relativo a un artefatto e alle sue qualità) - oggetti tridimensionali, dipinti e radiografie - emerge da mesi di documentazione in situ negli spazi dell’atelier di Jože Plečnik a Lubiana, in Slovenia.
Il lavoro inizia con radiografie eseguite sul
posto; spazi e artefatti sono mostrati tramite un dispositivo portatile per i
raggi X. L’immagine a raggi X oltrepassa gli attributi riconoscibili -
fisici - aprendo le strutture interne per l’investimento di narrazioni
riconfigurate. I dipinti a olio in rilievo sono quindi deposti direttamente
sulle radiografie, che sono poi nuovamente ri-eseguite. L’immagine
composita stratificata - enfolded - è
ricostituita sotto forma di uno stampo per gettare il reliquiario
tridimensionale. Tutte le realizzazioni sono in dimensione reale. Il
reliquiario non contiene l’oggetto.
Al suo interno non c’è uno spazio che
lo accolga. Invece, l’oggetto originario esiste solamente come traccia
processuale, incastonata come un’azione del passato; una musa generativa,
che ricompone reliquiario e oggetto come un tutt’uno indecifrabile che
manifesta analogia piuttosto che mimesis. Reintroducendoli in un luogo nuovo ed
estraneo, i reliquiari - ora interventions - importano una storia rinnovata che
funge da narrazione materiale connettendo il contesto ai reliquiari. La
doppia interfaccia tra i reliquiari e il loro contesto spaziale va intesa come
un’architettura che rielabora le distanze liminali - dialettiche - tra
esistente ed estraneo.
Per questo
il lavoro è doppiamente “site specific”; è colto da un luogo - la
sua origine - e riconfigurato in relazione al suo nuovo sito, l’aula Gino
Valle all’Università Iuav di Venezia. Comprende nuovi materiali
realizzati appositamente per questa mostra e altri provenienti da Form of
Absence, l’installazione ospitata nel 2013 presso il Contemporary Art
Museum di Tampa, in Florida.
La mostra -
fluttuando tra modalità e architettoniche - struttura la possibilità di
interazioni dirette tra narrazioni artefattuali e spaziali che si
(rap)presentano come una conseguenza sintetica: una rielaborazione dialettica -
corporea - di tracce dell’abitare. Questo lavoro è da considerarsi come
un punto di molteplici partenze.
note
1L’enfolded
reliquary è un reliquiario all’interno del quale un artefatto è
incorporato nel contenuto materiale dell’oggetto invece che ospitato nel
volume di uno spazio predeterminato. L’artefatto e il suo contenitore
sono considerati sinteticamente. Un reliquiario è comunemente visto come un
recipiente o un contenitore che ospita un artefatto significativo - una
reliquia. Spesso il contenitore e il suo contenuto non hanno una vera e mutua
relazione intrinseca, e tuttavia la reliquia è portatrice di un significato che
travalica il contenitore e assume una forma narrativa - spesso mitologica -
nelle menti di coloro che considerano importante l’artefatto; il
reliquiario instaura una connessione tramite la mediazione. Per estensione (ma
forse anche direttamente) un edificio è un reliquiario, e lo stesso si può
affermare anche per una scultura o per un dipinto. Sono analoghi. Del tutto racchiuso
nei loro processi (e nelle loro storie) corporei e in accordo con come
vengono esperiti c’è uno spazio che potenzialmente connette
l’oggetto e chi è presente nel suo spazio. L’enfolded reliquary è più un
copro materiale che rivela il suo contenuto avviluppando la sua storia, e la
storia della sua realizzazione, fino al punto in cui sia il contenitore che
l’oggetto si trovano ad essere la stessa cosa.